Il Sole 24 Ore

Il codice disciplina­re in sede vale anche fuori

- Marisa Marraffino

Lo smart working non salva il lavoratore da contestazi­oni disciplina­ri per l’uso scorretto di internet e dei social network. Lavorare a distanza consente infatti al datore di lavoro di esercitare il proprio potere disciplina­re in base all’articolo 2106 del Codice civile e impone al dipendente di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazion­e.

Così è stato licenziato per giusta causa il lavoratore che aveva pubblicato su Facebook la e-mail di invettive inviata al proprio superiore gerarchico, colpevole di «mettere bocca» o «questionar­e» sulle modalità di lavoro in giornata di smart working (Tribunale di Roma, sentenza 6022 dell’11 luglio 2018). Alla e-mail dai toni accesi seguivano altri post sui social network, tutti a carattere offensivo e svilente nei confronti dell’azienda, che sono stati considerat­i diffamator­i dal giudice.

A nulla sono valse le difese del lavoratore, che tra le altre cose sosteneva di non aver avuto visione del codice disciplina­re affisso in azienda, proprio perché spesso il suo lavoro era svolto in smart working. Secondo il giudice, la garanzia di pubblicità delle policy non si applica quando il licenziame­nto «fa riferiment­o a violazioni di doveri fondamenta­li connessi al rapporto di lavoro». Le offese pubblicate sui social network e inviate tramite e-mail, essendo reati, possono essere sanzionate a prescinder­e dalla specifica indicazion­e nel codice disciplina­re e dalla relativa conoscenza da parte del lavoratore.

La legge 81/2017 che ha introdotto la definizion­e di lavoro agile, come scelta del lavoratore quando l’azienda glielo consente, non stabilisce un diverso tipo di contratto, ma solo una modalità particolar­e di svolgiment­o dell’attività lavorativa, fissando alcune regole chiare. Tra queste, la norma rimette all’accordo tra le parti l’individuaz­ione delle condotte passibili di sanzione disciplina­re, che non possono però derogare al contratto collettivo, cui è demandata la scelta del tipo di sanzioni da applicare. Questa disposizio­ne supera la difficoltà di rendere conoscibil­i, tramite ad esempio l’affissione delle policy all’interno dell’azienda, le regole per l’uso degli strumenti informatic­i, che saranno sottoscrit­te dal lavoratore in sede contrattua­le. Per non creare disparità tra i dipendenti che lavorano da casa e in azienda è lecito ritenere, poi, che le sanzioni debbano essere le stesse.

Quindi è pacifico che sono ammessi controlli sulle email o sui Pc anche del lavoratore in smart working.

Il datore di lavoro può effettuare controlli mirati per verificare il corretto uso degli strumenti di lavoro ma - come si legge nell’articolo sopra - entro i limiti dettati dallo Statuto dei lavoratori. Non sono consentiti controlli occulti, continuati­vi o pervasivi e possono sempre essere controllat­e le presenze.

Anche chi lavora in smart working dovrà garantire la riservatez­za dei dati e usare particolar­i accortezze legate alla diversa modalità di svolgiment­o del proprio lavoro. Dovrà quindi assicurare, con idonee misure, che soggetti non autorizzat­i non accedano ai dati aziendali e osservare l’informativ­a sulla privacy fatta sottoscriv­ere dall’azienda. Valgono le stesse regole degli altri lavoratori anche per la pubblicazi­one di dati riservati sui social network.

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza 108 del 2 marzo ha stabilito che non viola la clausola di riservatez­za il dirigente che pubblica su Facebook le foto della propria trasferta lavorativa. Per il giudice, i post del lavoratore consentono al più di «individuar­e quali siano state le tappe della trasferta e di cogliere in uno di essi - se visionato da un osservator­e qualificat­o - il riferiment­o al logo di un cliente». Si tratta però di contenuti diffusi sul profilo privato del lavoratore, che di per sé non possono dirsi contrari agli obblighi di riservatez­za.

Il caso: non salva dal licenziame­nto per diffamazio­ne dei capi il non aver letto le regole aziendali durante il lavoro agile

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