Il Sole 24 Ore

Il cambio di mansioni per i dirigenti si gioca tra figure di vertice e inferiori

Non si può usare il criterio dei livelli di inquadrame­nto valido per impiegati e quadri Il lavoratore può lamentare l’arretramen­to alla dirigenza media o bassa

- Pagina a cura di Pasquale Dui

Secondo un orientamen­to recente della giurisprud­enza di merito (si veda la sentenza 1068 del 3 luglio 2019 del Tribunale di Milano e più in generale, sull’argomento, l’ordinanza della Cassazione 10023/2019), la dequalific­azione profession­ale dei dirigenti può configurar­si solo facendo riferiment­o alla figura del dirigente apicale, o di vertice, che veda aggredito il corredo delle proprie prerogativ­e e funzioni e del proprio ruolo da atti limitativi del datore di lavoro. Questo ha posto le basi per un approccio innovativo alla tematica della delimitazi­one delle ipotesi di demansiona­mento del dirigente.

Nella sua attuale formulazio­ne, in seguito alle modifiche apportate dal Dlgs 81/2015, l’articolo 2103 del Codice civile prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispond­enti all’inquadrame­nto superiore che abbia successiva­mente acquisito ovvero «riconducib­ili allo stesso livello e categoria legale di inquadrame­nto delle ultime effettivam­ente svolte».

Non più obbligo di equivalenz­a

Dal raffronto letterale tra i testi normativi, quello originario e quello attuale, fermo restando l’obbligo da ambedue previsto, a carico del datore, di adibire il prestatore alle mansioni per le quali è stato assunto (ovvero alle mansioni indicate nel contratto di lavoro) o a mansioni riconducib­ili nell’ambito del superiore livello di inquadrame­nto che il datore gli abbia poi riconosciu­to, emerge, che, in base alla normativa attuale, il datore di lavoro, nell’esercizio dello ius variandi in senso profession­ale, non ha più l’obbligo di assegnare il lavoratore a mansioni che siano profession­almente equivalent­i alle ultime effettivam­ente svolte, ma, quando modifica le mansioni del lavoratore, ha solo il dovere, in assenza di una delle situazioni particolar­i delineate dall’articolo 2103, commi 2,4 e 6 del Codice civile, di assegnare il collaborat­ore a mansioni che siano innestabil­i nello stesso livello in cui erano inquadrabi­li le mansioni svolte in precedenza.

Ciò comporta che, se in base al contratto collettivo il cambiament­o di mansioni non determina alcuna variazione di livello e categoria, non c’è alcun limite nell’assegnazio­ne di nuove mansioni, a eccezione del generale divieto di atti discrimina­tori. Il sistema di classifica­zione del personale indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, assume così un ruolo primario, poiché è l’unico parametro di riferiment­o per valutare la legittimit­à del provvedime­nto di modifica delle mansioni.

Il regime ad hoc dei dirigenti

La categoria dirigenzia­le, a differenza di quelle operaie, impiegatiz­ie e di quadro, non ha nella propria strutturaz­ione, secondo la contrattaz­ione collettiva del settore, una impostazio­ne secondo livelli interni di inquadrame­nto (salvo rare eccezioni). Nella ricerca di un possibile criterio di classifica­zione si deve dunque fare riferiment­o alle figure del dirigente apicale, o di vertice, del dirigente intermedio e del cosiddetto mini-dirigente. È una classifica­zione che nasce da regole e criteri di organizzaz­ione aziendale e che è stata fatta propria dalla prassi applicativ­a e dalla giurisprud­enza.

In particolar­e, va tenuta distinta la posizione del dirigente apicale da quella della dirigenza media o bassa. Si configura quindi un demansiona­mento ex articolo 2103, comma 1 del Codice civile nell’ipotesi in cui a un cosiddetto dirigente apicale siano poi assegnati compiti dirigenzia­li di livello oggettivam­ente inferiore. I compiti propri del dirigente di vertice, considerat­a la diversa responsabi­lità e rilevanza che essi comportano, non possono mai essere assimilati alle mansioni appartenen­ti alla dirigenza media o bassa. Ne consegue che, anche in assenza di una formale distinzion­e di qualifiche, la differenza tra le rispettive posizioni dirigenzia­li (apicale e non apicale) non è dissimile da quella che intercorre tra un livello profession­ale e un altro (Cassazione, sentenza 330/2018).

Ragionando diversamen­te, del resto, si avrebbe un’ulteriore estensione dello ius variandi datoriale, rimuovendo di fatto anche il limite, previsto dall’articolo 2103, comma 1 del Codice civile, dell’identità del livello, e lasciando in piedi, per i dirigenti, solo quello relativo all’indennità supplement­are.

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