Libano: cronaca di una bancarotta annunciata
Il default sul debito formalizzato nei giorni scorsi è il sintomo di un sistema economico e istituzionale insostenibile
Il default sul debito, formalizzato dal Libano nel fine settimana, è la cronaca di una bancarotta annunciata. Il Paese si è retto a lungo solo sul dinamico e brillante sistema bancario (con depositi pari al triplo del Pil nazionale) senza quasi produrre beni.
Fino a pochi giorni fa il piccolo Libano si reggeva su di un paradosso. Sul fronte politico era conosciuto come uno dei Paesi più instabili del Medio Oriente. Su quello finanziario era invece il più stabile, un modello. Tutto merito di un brillante e dinamico settore bancario, su cui si reggeva l’intera economia di questo Paese. Che da sempre finanziava buona parte dell’ingombrante debito del governo (già 10 anni fa superava il 120% del Pil) .
Di crisi, il Libano ne ha vissute tante, alcune lunghe e drammatiche. Eppure ha sempre onorato i suoi debiti. Lo ha fatto anche nell’anno del conflitto tra Israele ed Hezbollah (giugno-luglio 2006), nei turbolenti anni che lo precedettero, ed in quelli che lo seguirono. Perfino durante il periodo della guerra civile (19761990), quando 15 anni di scontri fratricidi si lasciarono dietro 200mila vittime e un Paese in macerie, le istituzioni, o quel che ne restava, avevano provveduto a onorare i debiti.
Stavolta il Libano non ce l’ha fatta. Ha alzato bandiera bianca. Lunedì 9 marzo 2020 passerà alla storia per esser la data del primo default. Il giorno in cui non è stato pagato un Eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza ieri. «Come possiamo pagare i creditori quando la gente è in strada senza nemmeno i soldi per comprare una pagnotta?», aveva spiegato sabato il neo premier Hassan Duabi. Salito al potere lo scorso 21 gennaio, era l’uomo cui era stato affidato l’arduo compito di trovare una soluzione alla grave crisi economica che aveva trascinato in piazza per settimane quasi metà della popolazione libanese. Poteva fare ben poco. I conti erano arrivati a livelli disastrosi, con il debito pubblico al 170% del Pil, l’inflazione sopra le due cifre, il deficit che ha fine 2018 aveva superato il 10 per cento.
Sono ore frenetiche quelle che si consumano in questi giorni nei palazzi del potere di Beirut e nei corridoi delle principali banche. Si cerca di negoziare una ristrutturazione con i creditori. E si valutano altre opzioni. Tutto pur di evitare azioni legali dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Eppure prima di arrivare a questa crisi, Riad Salameh, l’uomo al timone della Banca centrale del Libano da 26 anni, le aveva provate davvero tutte. Ricorrendo a quella che lui stesso aveva definito “ingegneria finanziaria”, Salameh aveva ancorato nel 1997 la sterlina libanese al dollaro americano. Lottando fino a pochi mesi fa, e con successo, affinché il cambio fisso fosse preservato. Ma il perno su cui si reggeva il sistema finanziario libanese alla fine ha ceduto. L’ancoraggio è saltato. E sul mercato parallelo il pound in pochi mesi si è svalutato del 40% sul dollaro.
La svolta, in negativo, è arrivata molto prima, con le primavere arabe, spesso degenerate in cruenti guerre civili, che a inizio 2011 hanno scosso il Medio Oriente e il Nord Africa ). Anche allora non c’era apparentemente motivo per preoccuparsi. Nel 2010, quando le economie dei Paesi occidentali si leccavano le ferite per la crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008 con la bancarotta di Lehman Brothers, le banche libanesi macinavano profitti su profitti. I numeri del 2010 erano impressionanti; l’attività consolidata delle 54 banche libanesi aveva raggiunto i 128,9 miliardi di dollari, il 12% in più sul 2009, che a sua volta aveva registrato un +22% rispetto al 2008. Sempre nel 2010 i depositi privati erano arrivati a 107,2 miliardi, il 12% in più rispetto al 2009.
Quanto al Pil, il +9,4% del 2009 coronava un periodo di forte crescita in cui, nonstante la forte instabilità, il sistema bancario libanese attraeva depositi da tutto il mondo.
In verità i problemi macro economici di questo Paese che importa tutto e vive solo di servizi erano già piuttosto seri. La guerra civile nella vicina Siria ha dato solo il colpo di grazia. Un milione e mezzo di profughi si è riversato in Libano, trasformandolo nel Paese con il più alto tasso al mondo di rifugiati per abitante. Le infrastrutture, già insufficienti per i libanesi, non hanno retto alla pressione. Eppure fino alla metà del 2018, il sistema libanese pareva resistere. Nel maggio di quell’anno, durante un’intervista con il Sole 24 Ore nel suo ufficio di Beirut, il governatore Salemeh aveva precisato: «I depositi totali nel Paese superano di oltre tre volte il Pil nazionale. Questo grazie anche alle rimesse dei libanesi all’estero, circa 7 miliardi di dollari l’anno (il 15% del Pil, ndr). Sono un fattore essenziale». Sette mesi dopo era tuttavia arrivato un pessimo segnale. I depositi bancari, la spina dorsale su cui si era retto il boom finanziario del Paese dei cedri, avevano iniziato a ridursi. Era l’inizio di una mancanza di fiducia in un Paese costruito sulla fiducia. I conti pubblici d’altronde versavano da tempo in una situazione grave. Alla fine i nodi sono arrivati al pettine. Complice la corruzione endemica, i servizi di base per i cittadini sono crollati. Il caro vita ha creato un esercito di poveri. La classe media si è quasi estinta. La situazione è molto seria.
L’ennesimo campanello d’allarme è arrivato da un altro pilastro della finanza libanese; di recente le riserve di valuta straniera detenute dalla Banca centrale, necessarie anche per ripagare debitori esteri, si erano andate riducendo in modo consistente. E preoccupante. Le banche, che avevano già imposto grossi limiti ai prelievi, hanno cominciato a rifiutarsi di convertire la lira libanese in dollari. Tali misure hanno così inferto un duro colpo alla capacità del Paese di importare beni dall’estero.
Il governo doveva quindi decidere se continuare a usare le sue riserve per ripagare il debito o saltare il pagamento di lunedì e conservarle per le importazioni. Le più colpite dal default sarebbero le banche libanesi, che posseggono circa 12,3 dei 31 miliardi di Eurobond emessi. Sembra che ieri abbiano avviato negoziati per una ristrutturazione e fissare nuovi parametri. Ora il Governo spera di trovare un accordo anche con i detentori stranieri degli eurobond non pagati. In tutto il Governo di Beirut intenderebbe ristrutturare 31 miliardi di dollari. Una grossa parte del debito scaduto di ieri è controllata dal fondo britannico Ashmore. E non è automatico che sia disponibile ad accettare proposte di ristrutturazione. In questo caso si aprirebbe la strada per azioni legali.
Pur di evitarle il Libano proverà a invocare l’aiuto del Fondo monetario internazionale (Fmi). Ma il prezzo da pagare rischia di essere molto alto per i libanesi. In cambio di un prestito, Beirut dovrà presumibilmente negoziare un pacchetto di dolorose riforme strutturali, che metterebbero in difficoltà una popolazione già messa a dura prova dalla crisi. Senza contare i l movimento sciita Hezbollah, presente nel Governo. Considerato la longa manus di Tehran sul Mediterraneo, Hezbollah vede l’Fmi come un braccio del Grane Satana. E non vuole averci a che fare in alcun modo.
Il Paese si è retto solo sul sistema bancario (con depositi pari al triplo del Pil nazionale) senza quasi produrre beni