La vera regia e le ragioni della rivolta
La spinta per l’amnistia e la lotta per il comando dei clan criminali
L’Italia non aveva bisogno di un altro virus: quello che sta contagiando le carceri. Da sud (dove la rivolta è partita) al centro (dove è proseguita) al nord (dove sta dilagando) gli istituti penitenziari sono messi a ferro e fuoco.
Se c’è una falsa ragione per la quale è scoppiata la rivolta nelle carceri italiane, ebbene, quella è proprio il blocco dei colloqui tra detenuti e i loro familiari e avvocati. In quasi tutte le Residenze sanitarie per anziani – per dirne una – familiari e pazienti non si incontrano più da giorni.
Ancor di meno è una ragione valida quella che ha portato una trentina di familiari di detenuti della casa circondariale di Trapani, a chiedere la liberazione dei propri cari, perché preoccupati per un possibile contagio da coronavirus all’interno dell’istituto di pena. Il carcere – fino a che saranno rispettate le regole fissate dal Governo, che interrompono momentaneamente colloqui, permessi, lavoro all’esterno e semilibertà – è più sicuro della movida milanese.
Allora, cosa sta davvero spingendo i reclusi a mettere a ferro e fuoco gli istituti penitenziari e a porre a rischio, oltre alla propria vita, quella del personale, a partire da quello di polizia? Una domanda ancor più legittima se si pensa che il tam-tam di “radio carcere” ha facilmente fatto dilagare in tutta Italia l’avviso di rivolta.
La prima ragione è uscire dal carcere non con una fuga ma con il timbro della legge. Un obiettivo certo, concreto e conclamato dietro il quale c’è il ferro e il fuoco di queste ore, è ottenere un provvedimento legislativo d’urgenza che porti a indulti, amnistie o arresti domiciliari.
Dietro c’è un doppio movimento che sollecita e caldeggia questa via. Uno legittimo, l’altro no. Quello legittimo è di una parte della politica, delle professioni e delle associazioni che, ciclicamente, spingono per far uscire un numero consistenti di reclusi per liberare le carceri dal sovraffollamento.
La legittimità di questo movimento – condivisibile o meno, in tutto o in parte – deve fare i conti con una realtà amara: poco dopo l’attuazione dei provvedimenti di clemenza, le celle tornano ad essere piene come un uovo (a partire da extracomunitari e soggetti psichiatrici) e tutto, dunque, ricomincia daccapo. Ancora una volta vengono dunque messe a nudo le carenze di organico, le dissennate politiche di trasferimento o destinazione di parte degli operatori di polizia e di parte del personale civile, la vetustà delle strutture e la carenza di mezzi e risorse.
L’altra spinta è quella della rete delinquenziale che ha nel carcere un motore, una scuola di vita oltre che di – parlando con la Costituzione in mano – un percorso di recupero. Svuotare le carceri dei soliti noti assicura un ricambio di “pezzi originali” da mettere nel circuito criminale di basse lega o, talvolta, di alto potenziale. Non facciamo scivolare nell’indifferenza le immagini riprese all’esterno del carcere napoletano di Poggioreale, nelle quali si vedono i familiari dei reclusi urlare “de-te-nu-ti de-te-nu-ti” quasi a invocarne un ruolo privo però di un’anima operativa.
Un altro motivo per il quale esiste una filiera abilmente manovrata è quello che porta dritti diritti al comando criminale all’interno delle carceri. Una rivolta, qualunque essa sia, è il momento giusto per far vedere a tutti chi comanda davvero le dinamiche delinquenziali e criminali interne ma può anche rappresentare il momento più opportuno per scardinare le vecchie gerarchie, imporne di nuove, benedire nuove alleanze interne e regolare conti tra opposte fazioni.
Non va, infine, sottovaluta la facilità con la quale i detenuti hanno preso possesso delle carceri, per fare razzia di farmaci e metadone. Ecco, è ora di prendere pienamente coscienza del terzo motivo: le celle sono piene di drogati (tossicodipendenti e/o farmacodipendenti), pronti a morire (come è successo a Modena) per una dose.