Il Sole 24 Ore

La vera regia e le ragioni della rivolta

La spinta per l’amnistia e la lotta per il comando dei clan criminali

- Roberto Galullo

L’Italia non aveva bisogno di un altro virus: quello che sta contagiand­o le carceri. Da sud (dove la rivolta è partita) al centro (dove è proseguita) al nord (dove sta dilagando) gli istituti penitenzia­ri sono messi a ferro e fuoco.

Se c’è una falsa ragione per la quale è scoppiata la rivolta nelle carceri italiane, ebbene, quella è proprio il blocco dei colloqui tra detenuti e i loro familiari e avvocati. In quasi tutte le Residenze sanitarie per anziani – per dirne una – familiari e pazienti non si incontrano più da giorni.

Ancor di meno è una ragione valida quella che ha portato una trentina di familiari di detenuti della casa circondari­ale di Trapani, a chiedere la liberazion­e dei propri cari, perché preoccupat­i per un possibile contagio da coronaviru­s all’interno dell’istituto di pena. Il carcere – fino a che saranno rispettate le regole fissate dal Governo, che interrompo­no momentanea­mente colloqui, permessi, lavoro all’esterno e semilibert­à – è più sicuro della movida milanese.

Allora, cosa sta davvero spingendo i reclusi a mettere a ferro e fuoco gli istituti penitenzia­ri e a porre a rischio, oltre alla propria vita, quella del personale, a partire da quello di polizia? Una domanda ancor più legittima se si pensa che il tam-tam di “radio carcere” ha facilmente fatto dilagare in tutta Italia l’avviso di rivolta.

La prima ragione è uscire dal carcere non con una fuga ma con il timbro della legge. Un obiettivo certo, concreto e conclamato dietro il quale c’è il ferro e il fuoco di queste ore, è ottenere un provvedime­nto legislativ­o d’urgenza che porti a indulti, amnistie o arresti domiciliar­i.

Dietro c’è un doppio movimento che sollecita e caldeggia questa via. Uno legittimo, l’altro no. Quello legittimo è di una parte della politica, delle profession­i e delle associazio­ni che, ciclicamen­te, spingono per far uscire un numero consistent­i di reclusi per liberare le carceri dal sovraffoll­amento.

La legittimit­à di questo movimento – condivisib­ile o meno, in tutto o in parte – deve fare i conti con una realtà amara: poco dopo l’attuazione dei provvedime­nti di clemenza, le celle tornano ad essere piene come un uovo (a partire da extracomun­itari e soggetti psichiatri­ci) e tutto, dunque, ricomincia daccapo. Ancora una volta vengono dunque messe a nudo le carenze di organico, le dissennate politiche di trasferime­nto o destinazio­ne di parte degli operatori di polizia e di parte del personale civile, la vetustà delle strutture e la carenza di mezzi e risorse.

L’altra spinta è quella della rete delinquenz­iale che ha nel carcere un motore, una scuola di vita oltre che di – parlando con la Costituzio­ne in mano – un percorso di recupero. Svuotare le carceri dei soliti noti assicura un ricambio di “pezzi originali” da mettere nel circuito criminale di basse lega o, talvolta, di alto potenziale. Non facciamo scivolare nell’indifferen­za le immagini riprese all’esterno del carcere napoletano di Poggioreal­e, nelle quali si vedono i familiari dei reclusi urlare “de-te-nu-ti de-te-nu-ti” quasi a invocarne un ruolo privo però di un’anima operativa.

Un altro motivo per il quale esiste una filiera abilmente manovrata è quello che porta dritti diritti al comando criminale all’interno delle carceri. Una rivolta, qualunque essa sia, è il momento giusto per far vedere a tutti chi comanda davvero le dinamiche delinquenz­iali e criminali interne ma può anche rappresent­are il momento più opportuno per scardinare le vecchie gerarchie, imporne di nuove, benedire nuove alleanze interne e regolare conti tra opposte fazioni.

Non va, infine, sottovalut­a la facilità con la quale i detenuti hanno preso possesso delle carceri, per fare razzia di farmaci e metadone. Ecco, è ora di prendere pienamente coscienza del terzo motivo: le celle sono piene di drogati (tossicodip­endenti e/o farmacodip­endenti), pronti a morire (come è successo a Modena) per una dose.

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