In gabbia una industria che vale 100 miliardi
L’Italia manifatturiera è ostaggio del Corona Virus. L’identikit è preciso. I contorni sono nitidi. L’immagine è inquietante. Sono cinquantanove i distretti industriali censiti e monitorati dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo confinati nella zona arancione. Nessun economista sa ancora quantificare gli effetti del combinato disposto di tre fattori potenzialmente destrutturanti: gli ultimi provvedimenti di salute pubblica, l’impatto recessivo del Covid 19 sulle catene globali del valore a cui – dall’inizio degli anni Novanta - è agganciata la nostra industria e il deterioramento del posizionamento del Made in Italy sul mercato della reputazione internazionale, alimentato con senso di strategia o in maniera ferocemente istintiva da qualunque concorrente ambisca a prendersi una commessa o una quota di mercato oggi in mano ad una azienda italiana. Di sicuro, sappiamo che la componente nazionale entrata da sabato notte nella bolla della zona arancione costituisce uno dei cuori strategici e una delle anime identitarie dell’industria italiana. Secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, questi 59 distretti sviluppano ogni anno 60,6 miliardi di euro di export: la metà delle esportazioni complessive dei sistemi distrettuali. Le unità locali – l’unità produttiva e commerciale che rappresenta l’atomo di ogni impresa – sono poco meno di 32.600. Si contano circa 405mila occupati. Un numero che restituisce bene l’importanza sociale e civile di queste fabbriche. Nel canone del distretto elaborato dall’ufficio studi di Intesa-Sanpaolo, ogni addetto genera 58mila euro. E, dunque, si potrebbe stimare che la zona arancione abbia preso in ostaggio un sistema produttivo capillare e diffuso che, ogni anno, produce 25miliardi di euro di valore aggiunto e sviluppa un centinaio di miliardi di euro di fatturato. Con questi 59 distretti, siamo veramente al centro dell’industrializzazione – e, anche, dello sviluppo civico e sociale – del nostro Paese. In qualche maniera, non vengono soltanto messe a rischio le basi tecno-industriali e i livelli occupazionali. In qualche modo, si scalfiscono il mito più profondo della nostra storia economica e la constituency psico-emotiva dell’Italia come Paese delle fabbriche. Questi distretti sono i motori che – al di fuori dell’antico Triangolo industriale novecentesco – hanno per un secolo alimentato la crescita export-led. E, molti di essi, sono i tasselli che compongono il nuovo mosaico dell’economia italiana più avanzata formato dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna e dal Veneto. Ci sono le piastrelle di Sassuolo (il primo a scoprirle fu, nel 1966, un giovane economista di nome Romano Prodi con lo studio “Modello di sviluppo di un settore in rapida crescita: l’industria della ceramica per l'edilizia”) e l’arredamento della Brianza (l’Adalgisa, protagonista dell’omonimo capolavoro di Carlo Emilio Gadda, pensa soltanto alla “stansa de Lissòn”, la camera da letto di Lissone), la meccatronica di Reggio-Emilia (generata dalla fertilizzazione del vecchio spirito imprenditoriale da parte del drammatico fallimento, nel 1951, delle Officine Meccaniche Reggiane) e le calzature di Vigevano, raccontate nel 1962 da Lucio Mastronardi nel romanzo “Il calzolaio di Vigevano”. La bolla della zona arancione investe la manifattura pura: fra gli altri distretti, le macchine agricole di Padova e Vicenza, la meccanica strumentale del Bresciano e della Bergamasca, la metalmeccanica di Lecco , la rubinetteria e il valvolame del Cusio-Valsesia. Nella manifattura pura, gli operai e i tecnici “devono” andare sulle linee di montaggio e di fabbricazione. Non esiste, per questa parte d’Italia, la possibilità del telelavoro. Inoltre, le merci “devono” viaggiare: vanno stoccate, vanno messe sui tir o sui treni o sulle navi, vanno recapitate al destinatario. Per queste imprese che fanno parte delle Global Value Chains, ogni rallentamento, ogni mancata consegna e ogni stop creano un vuoto. E, nel capitalismo e nella manifattura internazionali, i vuoti si riempiono: li riempiono i tuoi concorrenti. Fra questi 59 distretti sottoposti allo stesso tempo allo shock e al rallentamento da diffusione massiccia di Corona Virus e alla paura e alla afasia da recessione incipiente, non c’è però soltanto la manifattura pura. Si trovano anche territori posti sul crinale fra industria e agricoltura, in quella terra un tempo felice – e, oggi, sottoposta alla calunnia e alla confusione quale strumenti di marketing da parte della concorrenza – che è l’agroalimentare e il wine business: fra questi 59 distretti, infatti, si trovano per esempio i salumi del Modenese e di Parma (fra le ragioni economiche della vita febbricitante – in senso né medico né virologico – che si forma e attecchisce nella Via Emilia di uno scrittore oggi dimenticato come Gianni Celati), i vini di Langhe-RoeroMonferrato raccontati da Mario Soldati e il prosecco di Conegliano-Veneto, le colline amate dal poeta Andrea Zanzotto. E, davvero, oltre che il tema degli spostamenti della manodopera e della consegna delle merci, in questi mercati finali – segnati così tanto da comportamenti intimi e biologici quali il mangiare e il bere – è difficile dubitare che l’attuale passaggio non provochi incalcolabili danni di posizionamento sui mercati internazionali. Oltre, naturalmente, a colpire nel profondo specializzazioni e territori, imprese e persone che non sono soltanto fenomeni economici, ma che rappresentano anche la lunga durata di un Paese. Che cosa siamo e che cosa vogliamo.
Nonostante clienti che cancellano visite e mercati in caduta libera, la locomotiva d’Italia continua a produrre I due rischi: il “marketing” calunnioso dei concorrenti stranieri e l’uscita dalle Catene Globali del Valore