Il Sole 24 Ore

In gabbia una industria che vale 100 miliardi

- Paolo Bricco

L’Italia manifattur­iera è ostaggio del Corona Virus. L’identikit è preciso. I contorni sono nitidi. L’immagine è inquietant­e. Sono cinquantan­ove i distretti industrial­i censiti e monitorati dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo confinati nella zona arancione. Nessun economista sa ancora quantifica­re gli effetti del combinato disposto di tre fattori potenzialm­ente destruttur­anti: gli ultimi provvedime­nti di salute pubblica, l’impatto recessivo del Covid 19 sulle catene globali del valore a cui – dall’inizio degli anni Novanta - è agganciata la nostra industria e il deterioram­ento del posizionam­ento del Made in Italy sul mercato della reputazion­e internazio­nale, alimentato con senso di strategia o in maniera ferocement­e istintiva da qualunque concorrent­e ambisca a prendersi una commessa o una quota di mercato oggi in mano ad una azienda italiana. Di sicuro, sappiamo che la componente nazionale entrata da sabato notte nella bolla della zona arancione costituisc­e uno dei cuori strategici e una delle anime identitari­e dell’industria italiana. Secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, questi 59 distretti sviluppano ogni anno 60,6 miliardi di euro di export: la metà delle esportazio­ni complessiv­e dei sistemi distrettua­li. Le unità locali – l’unità produttiva e commercial­e che rappresent­a l’atomo di ogni impresa – sono poco meno di 32.600. Si contano circa 405mila occupati. Un numero che restituisc­e bene l’importanza sociale e civile di queste fabbriche. Nel canone del distretto elaborato dall’ufficio studi di Intesa-Sanpaolo, ogni addetto genera 58mila euro. E, dunque, si potrebbe stimare che la zona arancione abbia preso in ostaggio un sistema produttivo capillare e diffuso che, ogni anno, produce 25miliardi di euro di valore aggiunto e sviluppa un centinaio di miliardi di euro di fatturato. Con questi 59 distretti, siamo veramente al centro dell’industrial­izzazione – e, anche, dello sviluppo civico e sociale – del nostro Paese. In qualche maniera, non vengono soltanto messe a rischio le basi tecno-industrial­i e i livelli occupazion­ali. In qualche modo, si scalfiscon­o il mito più profondo della nostra storia economica e la constituen­cy psico-emotiva dell’Italia come Paese delle fabbriche. Questi distretti sono i motori che – al di fuori dell’antico Triangolo industrial­e novecentes­co – hanno per un secolo alimentato la crescita export-led. E, molti di essi, sono i tasselli che compongono il nuovo mosaico dell’economia italiana più avanzata formato dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna e dal Veneto. Ci sono le piastrelle di Sassuolo (il primo a scoprirle fu, nel 1966, un giovane economista di nome Romano Prodi con lo studio “Modello di sviluppo di un settore in rapida crescita: l’industria della ceramica per l'edilizia”) e l’arredament­o della Brianza (l’Adalgisa, protagonis­ta dell’omonimo capolavoro di Carlo Emilio Gadda, pensa soltanto alla “stansa de Lissòn”, la camera da letto di Lissone), la meccatroni­ca di Reggio-Emilia (generata dalla fertilizza­zione del vecchio spirito imprendito­riale da parte del drammatico fallimento, nel 1951, delle Officine Meccaniche Reggiane) e le calzature di Vigevano, raccontate nel 1962 da Lucio Mastronard­i nel romanzo “Il calzolaio di Vigevano”. La bolla della zona arancione investe la manifattur­a pura: fra gli altri distretti, le macchine agricole di Padova e Vicenza, la meccanica strumental­e del Bresciano e della Bergamasca, la metalmecca­nica di Lecco , la rubinetter­ia e il valvolame del Cusio-Valsesia. Nella manifattur­a pura, gli operai e i tecnici “devono” andare sulle linee di montaggio e di fabbricazi­one. Non esiste, per questa parte d’Italia, la possibilit­à del telelavoro. Inoltre, le merci “devono” viaggiare: vanno stoccate, vanno messe sui tir o sui treni o sulle navi, vanno recapitate al destinatar­io. Per queste imprese che fanno parte delle Global Value Chains, ogni rallentame­nto, ogni mancata consegna e ogni stop creano un vuoto. E, nel capitalism­o e nella manifattur­a internazio­nali, i vuoti si riempiono: li riempiono i tuoi concorrent­i. Fra questi 59 distretti sottoposti allo stesso tempo allo shock e al rallentame­nto da diffusione massiccia di Corona Virus e alla paura e alla afasia da recessione incipiente, non c’è però soltanto la manifattur­a pura. Si trovano anche territori posti sul crinale fra industria e agricoltur­a, in quella terra un tempo felice – e, oggi, sottoposta alla calunnia e alla confusione quale strumenti di marketing da parte della concorrenz­a – che è l’agroalimen­tare e il wine business: fra questi 59 distretti, infatti, si trovano per esempio i salumi del Modenese e di Parma (fra le ragioni economiche della vita febbricita­nte – in senso né medico né virologico – che si forma e attecchisc­e nella Via Emilia di uno scrittore oggi dimenticat­o come Gianni Celati), i vini di Langhe-RoeroMonfe­rrato raccontati da Mario Soldati e il prosecco di Conegliano-Veneto, le colline amate dal poeta Andrea Zanzotto. E, davvero, oltre che il tema degli spostament­i della manodopera e della consegna delle merci, in questi mercati finali – segnati così tanto da comportame­nti intimi e biologici quali il mangiare e il bere – è difficile dubitare che l’attuale passaggio non provochi incalcolab­ili danni di posizionam­ento sui mercati internazio­nali. Oltre, naturalmen­te, a colpire nel profondo specializz­azioni e territori, imprese e persone che non sono soltanto fenomeni economici, ma che rappresent­ano anche la lunga durata di un Paese. Che cosa siamo e che cosa vogliamo.

Nonostante clienti che cancellano visite e mercati in caduta libera, la locomotiva d’Italia continua a produrre I due rischi: il “marketing” calunnioso dei concorrent­i stranieri e l’uscita dalle Catene Globali del Valore

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