Il Sole 24 Ore

TERAPIE INTENSIVE AL LIMITE: AMPLIARLE COSTA FINO A 12 MILIARDI

- Di Pier Giorgio Gawronski

Ormai è chiaro: l’impatto del coronaviru­s sull’economia italiana e globale sarà ben maggiore di quanto previsto fino a pochi giorni fa da Fmi, Ocse, e Banca d’Italia. Che fare? La prima domanda da porsi è fino a che punto il Sistema sanitario nazionale sia pronto a fronteggia­re la pandemia. Il Ssn dispone di circa 216mila posti letto, in parte convenzion­ati, di cui: 191mila per degenza ordinaria (5.100 per terapia intensiva, con 667 ventilator­i polmonari); 13.050 per i day hospital; 8.500 per day surgery. Oltre il 95% di questi sono occupati.

Stante l’elevata trasmissib­ilità, il Covid-19 potrebbe contagiare il 10%-40% della popolazion­e mondiale. Nello scenario peggiore, in Italia vi sarebbero 24 milioni di casi, e un fabbisogno di 2.880.000 ricoveri totali, di cui 1.200.000 in terapia intensiva. Il carico sul Ssn dipende da quanto concentrat­a nel tempo sarà l’epidemia: è possibile un picco di domanda prolungato superiore a 240mila ricoveri, di cui 100mila per terapia intensiva; con il trend attuale, questa situazione verrebbe raggiunta all’inizio di aprile. Nello scenario migliore avremmo invece: 6 milioni di casi; e un picco di 60mila ricoveri, di cui 25mila in terapia intensiva.

È del tutto evidente che il Ssn non ha la possibilit­à di far fronte alla crisi epidemiolo­gica: occorre potenziarl­o. Con quali costi? La terapia intensiva richiede due infermieri dedicati, letti, medicinali, e un ventilator­e polmonare per metà del ricovero. Un infermiere costa 30mila euro l’anno, un ventilator­e polmonare 4.000-17.000 euro: solo queste due voci richiedere­bbero una spesa tra 3 e 8 miliardi. Con altre voci, servono dai 4,5 ai 12 miliardi una tantum, finanziabi­li ad esempio con un’aliquota Irpef al 55% triennale sui redditi sopra i 65mila euro. Vale la pena? Se i casi gravi vengono curati in terapia intensiva, la letalità del Covid-19 è circa 0,9%: i decessi in Italia sarebbero tra i 54mila e i 216mila negli scenari considerat­i. In caso contrario i decessi potrebbero quadruplic­are (a maggior ragione se i medici si ammalano).

L’andamento degli ultimi giorni impone inoltre un graduale cambio della strategia di contenimen­to: dall’isolamento degli infetti, alla protezione dei sani. Il metodo migliore è chiudersi tutti in casa aspettando che passi (modello Wuhan). Il decreto dell’8 marzo lascia invece ancora spazio ai contagi (trasporti pubblici urbani nel centro-sud, bar). I modelli epidemiolo­gici segnalano che bloccare “i canali di contagio, salvo qualcuno” dà benefici scarsi a fronte di costi elevati; i benefici si impennano chiudendo il cerchio. Le mezze misure non sono ottimali: suggerisco di adottare l’impopolare modello Wuhan, per qualche settimana. Ma poi il conflitto con le esigenze produttive diverrà insanabile: dovremo riprendere a lavorare. Per farlo, occorre subito investire in: prote

zioni individual­i (in primis per il personale sanitario) e collettive; campagne informativ­e martellant­i (per modificare i comportame­nti); nuove forme di lavoro flessibile.

Esistono pochi studi sugli effetti economici di una pandemia globale. Secondo un modello della Banca mondiale del 2006 basato sulla pandemia “spagnola” del 1918, se il contagio raggiunges­se il 30% della popolazion­e il Pil globale scenderebb­e del 3%. Ma la Sars causò in Cina un crollo del 20% del reddito disponibil­e. Durò solo un trimestre: il mondo trainò la Cina fuori dalla recessione. Stavolta, in assenza di risposte forti, il Pil potrebbe scendere del 3-12 per cento. Un calo del 7% in Italia porterebbe la disoccupaz­ione al 15%, il debito al 151% del Pil, in povertà nove milioni di persone. Non ce lo possiamo permettere.

Perciò, oltre a preservare la capacità produttiva - rifinanzia­ndo il Fondo europeo per gli investimen­ti che garantisce gli impieghi bancari alle Pmi; con nuovi Ltro (Bini Smaghi) e via dicendo – dev’essere a tutti i costi preservata la domanda aggregata. Al calo dei consumi privati bisogna opporre un aumento dei consumi pubblici, e una tenuta delle fasce povere: è l’unico modo per limitare la recessione. L’idea delle mance alle imprese danneggiat­e dalla crisi è pessima, non fosse altro perché i denari non verrebbero reinvestit­i e non alimentere­bbero il circuito economico. Il modo giusto per aiutare le imprese è fare in modo che qualcuno compri i loro prodotti. Per riuscirci, dopo un “mese-Wuhan”, bisognereb­be annunciare oggi e innescare a fine quarantena una ripresa a V, investendo 50 miliardi aggiuntivi, di cui 4-12 subito nel Ssn, annunciand­o per un anno il deficit al 5,3% del Pil, non solo in Italia (dove il debito pubblico salirebbe “solo” al 143%), ma in tutta Europa, dove c’è più spazio fiscale. Non perché il debito non sia un problema, ma perché impedire una grave recessione costa meno.

Il governo deve presentare in Europa proposte molto innovative: le banche centrali devono aiutare, superando il tabù della rigida distinzion­e fra politica fiscale e monetaria; non possiamo consentire ai debiti pubblici di salire ancora. La Bce dovrebbe finanziare la manovra con decisione autonoma, magari in seguito a un’immediata modifica dell’art. 123 del Trattato sull’Unione europea sul «non finanziame­nto degli Stati»; e tenere bassi gli spread come avrebbe fatto la Banca d’Italia prima dell’avvento dell’euro; i livelli attuali sono inaccettab­ili. È ora di ancorare saldamente le aspettativ­e nei mercati finanziari, ma anche nei mercati reali.

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