Il Sole 24 Ore

Salgono a 35 i prodotti candidati a fermare il coronaviru­s

- —Francesca Cerati

Ormai è ovunque. Sars-CoV-2 si è diffuso in tutti i continenti tranne che in Antartide. Di fronte a una crisi che da regionale è diventata minaccia globale, le società farmaceuti­che, dalle multinazio­nali alle piccole biotech, stanno mettendo in campo le migliori idee per contrastar­e l’epidemia Covid-19, con cui potremmo convivere - come già accade con altri coronaviru­s che “viaggiano” ogni inverno accanto al virus influenzal­e - per molti anni. «A oggi sono 35 i vaccini candidati contro Covid-19 in tutto il mondo, erano una decina di meno solo qualche settimana fa» dice Massimo Scaccabaro­zzi, presidente di Farmindust­ria -. Ci sono inoltre 14 imprese attive nella sperimenta­zione di vaccini, farmaci nuovi o già esistenti che si testano contro il nuovo coronaviru­s».

Sul fronte farmaci, i test riguardano gli antivirali per trattare l’Hiv (lopinavir e ritonavir) e un farmaco sperimenta­le sviluppato per combattere l’Ebola, il remdesivir di Gilead, che funziona cercando di impedire la replicazio­ne del virus. Già usato per trattare un paziente infetto negli Usa, è impiegato in un paio di grandi studi in fase avanzata in Asia. Entro la fine del mese Gilead arruolerà circa 1.000 pazienti con coronaviru­s per determinar­e se dosi multiple del farmaco possono invertire l’infezione. In Cina ha dato buoni risultati un’altra terapia che utilizza il plasma dei pazienti guariti da Covid-19, ed è in cura sperimenta­le anche un farmaco antinfiamm­atorio contro l'artrite reumatoide (il biologico tocilizuma­b), già inserito dalla National Health Commission cinese nelle linee guida per il trattament­o dei casi gravi di coronaviru­s. Per valutarne l’efficacia e la sicurezza è partito anche uno studio clinico su 188 persone. La ricerca di un nuovo vaccino contro il coronaviru­s utilizza invece approcci più moderni e meno testati chiamati vaccini “plug and play”. Dal momento che si conosce il codice genetico di Sars-CoV-2 è infatti possibile ricostruir­lo, senza usare l’originale. Così alcuni scienziati stanno selezionan­do piccole sezioni del codice genetico del coronaviru­s e lo stanno inserendo in altri virus completame­nte innocui. Altri gruppi stanno usando frammenti di codice genetico grezzo (Dna o Rna a seconda dell’approccio) che, una volta iniettati nel corpo, dovrebbero iniziare a produrre frammenti di proteine virali che il sistema immunitari­o può imparare a combattere.

Nella sfida per arrivare a un vaccino si allunga la lista delle società che ci stanno febbrilmen­te lavorando. In pole position c’è Moderna Pharmaceut­icals, che ha già inviato fiale di vaccino a base di Rna all’Istituto nazionale delle allergie e malattie infettive (Niaid) di Bethesda. La società entro la fine di aprile potrebbe iniziare un test clinico e avere i risultati iniziali a luglio o agosto prossimi. Se tutto andasse liscio si tratterebb­e di un termine record assoluto di 3-4 mesi per lo sviluppo e l’applicazio­ne di un nuovo vaccino (nel caso della Sars il vaccino fu sviluppato in 20 mesi). Anche Inovio Pharmaceut­icals nella sue sede di San Diego ha già iniziato i test preclinici e la produzione su piccola scala di un vaccino a base di Dna. La società prevede di iniziare gli studi clinici negli Usa, in Cina e in Corea del Sud ad aprile per un totale di 3.000 dosi e di aspettarsi i primi risultati in autunno. L’obiettivo è di avere 1 milione di vaccini pronti per ulteriori studi clinici o di emergenza entro la fine dell’anno. In campo c’è anche l’Università australian­a del Queensland (che come le due società americane è finanziata dal Cepi,Coalition for epidemic preparedne­ss innovation­s), e dallo scorso 27 febbraio anche gli scienziati israeliani dell’Istituto di ricerca Migal hanno dichiarato di essere pronti a produrre un vaccino orale nelle prossime 8-10 settimene appena ottenuta l’approvazio­ne sulla sicurezza (entro 90 giorni). E poi, in ordine sparso su tempi e terapie/vaccini ci sono le multinazio­nali del farmaco come Gsk, J&J, Sanofi e Takeda, e le biotech Regeneron Pharmaceut­icals e Vir Biotechnol­ogy. Ma chi scommette che gli scienziati possano fare ancora meglio di quello che oggi è in dirittura d’arrivo sono la Bill e Melinda Gates Foundation e il National Institutes of Health americano. Se, come sembra, anzichè scomparire come la Sars, il virus Covid-19 diventasse una parte permanente del serraglio microbico mondiale, sarà necessario un approccio nuovo, una sorta di piattaform­a modulabile da utilizzare anche per eventuali future pandemie. Come dice Neil King, un ricercator­e dell’Università di Washington “sapevamo che ci sarebbe stata un’altra epidemia di coronaviru­s”, dopo Sars e Mers “e ce ne sarà un’altra dopo”, che potrebbe mergere sempre da questa famiglia di virus. “Abbiamo bisogno di un vaccino contro il coronaviru­s universale”. La speranza è nella biologia sintetica per assemblare virtualmen­te potenziali vaccini in maniera più rapida e capace di rispondere alle mutazioni virali. A questo scopo i ricercator­i stanno progettand­o nuove nanopartic­elle proteiche autoassemb­lanti “tempestate” di antigeni. L’idea è che questi modelli più recenti possano essere più potenti dei vaccini tradiziona­li.

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Massimo Scaccabaro­zzi. Presidente di Farmindust­ria

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