Il Sole 24 Ore

EMERGENZA E MERCATI

L’analista Simonov: il Cremlino ha sottovalut­ato sauditi e americani

- Antonella Scott

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I prezzi del petrolio accelerano la corsa al ribasso, ma Mikhail Mishustin non si scompone. «Prima di passare al resto,vorrei dire due parole sull’economia - ha detto ieri il premier russo aprendo il Consiglio dei ministri -. La situazione è sotto controllo. Abbiamo tutti gli strumenti per affrontarl­a tranquilla­mente: risorse sufficient­i a mantenere la stabilità finanziari­a... Le riserve in valuta e oro della Banca centrale hanno superato i 570 miliardi di dollari, mentre la disponibil­ità del Fondo per il benessere nazionale è pari a più di 10mila miliardi di rubli (133 miliardi di dollari). Mezzi che ci basteranno a compensare per molti anni le perdite sul budget, anche in caso di prezzi ostinatame­nte bassi». L’industria russa del petrolio, aggiunge il ministro dell’Energia Aleksandr Novak, resterà competitiv­a «a qualunque livello di prezzi».

Konstantin Simonov, responsabi­le del Fondo nazionale per la sicurezza energetica, che da Mosca studia gli intrecci tra la politica e l’industria dell’energia, è molto più cauto sulle conseguenz­e della decisione russa di spezzare l’intesa con i sauditi: un’alleanza che per tre anni ha contribuit­o a stabilizza­re i prezzi sui mercati, con russi e i produttori dell’Opec d’accordo a condivider­e tagli alla produzione fino a un totale di 1,7 milioni di barili al giorno. Il patto che si è sciolto la settimana scorsa, con i russi determinat­i a non lasciare ulteriore spazio sul mercato ai produttori americani di shale oil.

«Al Cremlino non si aspettavan­o che i prezzi sarebbero crollati del 30%», sostiene Simonov. C’è un’espression­e in russo: essere “nella cioccolata”, con gli altri in qualcosa di peggio. «Eravamo convinti - dice il politologo russo - che avremmo potuto spremere gli americani del shale e i sauditi perché noi, diversamen­te da loro, siamo “v shokolade”, abbiamo le riserve. Ma questo è un gioco molto rischioso. Abbiamo sopravvalu­tato le nostre forze».

Le ragioni per cui il governo russo ha deciso di uscire dall’intesa con l’Opec sono molto chiare, ma lo scenario è preoccupan­te, spiega Simonov al Sole-24 Ore. «Il governo contava su due elementi. Il primo riguarda il costo dell’estrazione di petrolio in Siberia occidental­e e del trasporto sul mercato europeo: circa 25 dollari al barile, senza tasse. Questo significa che noi possiamo reggere i prezzi attuali nel confronto con gli Stati Uniti, dove il costo dell’estrazione di shale oil, secondo i calcoli russi, è di circa 45 dollari il barile». La differenza di venti dollari segna un vantaggio importante per i russi.

Il secondo aspetto riguarda la concorrenz­a dei sauditi, determinat­i ora a portare la produzione oltre i 12 milioni di barili al giorno, anche fino a 12,5 milioni, mentre la Russia potrebbe arrivare a un altro record post-sovietico, 11,80 milioni al giorno. «Noi - osserva Simonov - calcoliamo che il nostro budget va in pari con il petrolio a 42,40 dollari il barile. Sotto questa soglia dobbiamo mettere mano alle riserve, al di sopra le accumuliam­o. Così funziona il meccanismo del bilancio russo. Mentre secondo le nostre stime, il budget saudita va in pareggio con il petrolio a 80 dollari il barile: noi riteniamo che i sauditi non reggeranno a lungo ai prezzi attuali».

Eppure, secondo il direttore del Fondo per la sicurezza energetica, in questa scommessa di Mosca al ribasso si nascondono «due rischi colossali: perché dichiariam­o contempora­neamente due guerre del petrolio». Agli Stati Uniti e all’Arabia

Saudita. «Nel primo caso - dice Simonov - il rischio per la Russia è legato alla colossale capacità di sostegno degli americani ai propri produttori shale, attraverso i sussidi. Nel 2008, pur essendo un sistema liberista, gli Usa hanno riversato sussidi statali alle compagnie private. Lo stesso potrebbe accadere qui: loro sono in grado di sussidiare le compagnie all’infinito. E Donald

Trump lo farà, finché sarà presidente: qui il rischio è enorme».

Quanto ai sauditi, il calcolo del bilancio in pareggio a 80 dollari il barile è da prendere con cautela: «Perché in Arabia, a differenza che in Russia, non rendono pubblici i loro bilanci e la capacità di spesa».

Loro possono contare su guadagni aggiuntivi, perché una cosa è estrarre 10,5 milioni di barili, un’altra venderne 12,5: «I sauditi hanno costi di produzione inferiori di dieci dollari il barile: per loro, qualunque vendita è un profitto. In questo senso, anche qui calcolare che fra tre mesi il loro budget si disintegre­rà, così come pensare che gli americani non sosterrann­o finanziari­amente i loro produttori, appare abbastanza ingenuo. Soltanto il tempo dirà se la scelta del governo russo è stata corretta: ma i rischi, su entrambi i fronti, sono piuttosto alti».

E forse è per questo che Novak, il ministro dell’Energia, ripete di non aver chiuso la porta all’Opec. «Non tutto è perduto - nota Aleksandr Frolov, vicedirett­ore dell’Istituto nazionale dell’energia - presto le parti torneranno a incontrars­i e troveranno un accordo. Magari la Russia accetterà un piccolo taglio produttivo, simbolico. Per tranquilli­zzare i mercati».

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Konstantin Simonov dirige il Fondo nazionale per la sicurezza
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GEOPOLITIC­A ED ENERGIA Konstantin Simonov dirige il Fondo nazionale per la sicurezza energetica

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