EMERGENZA E MERCATI
L’analista Simonov: il Cremlino ha sottovalutato sauditi e americani
«Non siamo qui per ridurre gli spread», frase shock per i mercati del capo Bce
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I prezzi del petrolio accelerano la corsa al ribasso, ma Mikhail Mishustin non si scompone. «Prima di passare al resto,vorrei dire due parole sull’economia - ha detto ieri il premier russo aprendo il Consiglio dei ministri -. La situazione è sotto controllo. Abbiamo tutti gli strumenti per affrontarla tranquillamente: risorse sufficienti a mantenere la stabilità finanziaria... Le riserve in valuta e oro della Banca centrale hanno superato i 570 miliardi di dollari, mentre la disponibilità del Fondo per il benessere nazionale è pari a più di 10mila miliardi di rubli (133 miliardi di dollari). Mezzi che ci basteranno a compensare per molti anni le perdite sul budget, anche in caso di prezzi ostinatamente bassi». L’industria russa del petrolio, aggiunge il ministro dell’Energia Aleksandr Novak, resterà competitiva «a qualunque livello di prezzi».
Konstantin Simonov, responsabile del Fondo nazionale per la sicurezza energetica, che da Mosca studia gli intrecci tra la politica e l’industria dell’energia, è molto più cauto sulle conseguenze della decisione russa di spezzare l’intesa con i sauditi: un’alleanza che per tre anni ha contribuito a stabilizzare i prezzi sui mercati, con russi e i produttori dell’Opec d’accordo a condividere tagli alla produzione fino a un totale di 1,7 milioni di barili al giorno. Il patto che si è sciolto la settimana scorsa, con i russi determinati a non lasciare ulteriore spazio sul mercato ai produttori americani di shale oil.
«Al Cremlino non si aspettavano che i prezzi sarebbero crollati del 30%», sostiene Simonov. C’è un’espressione in russo: essere “nella cioccolata”, con gli altri in qualcosa di peggio. «Eravamo convinti - dice il politologo russo - che avremmo potuto spremere gli americani del shale e i sauditi perché noi, diversamente da loro, siamo “v shokolade”, abbiamo le riserve. Ma questo è un gioco molto rischioso. Abbiamo sopravvalutato le nostre forze».
Le ragioni per cui il governo russo ha deciso di uscire dall’intesa con l’Opec sono molto chiare, ma lo scenario è preoccupante, spiega Simonov al Sole-24 Ore. «Il governo contava su due elementi. Il primo riguarda il costo dell’estrazione di petrolio in Siberia occidentale e del trasporto sul mercato europeo: circa 25 dollari al barile, senza tasse. Questo significa che noi possiamo reggere i prezzi attuali nel confronto con gli Stati Uniti, dove il costo dell’estrazione di shale oil, secondo i calcoli russi, è di circa 45 dollari il barile». La differenza di venti dollari segna un vantaggio importante per i russi.
Il secondo aspetto riguarda la concorrenza dei sauditi, determinati ora a portare la produzione oltre i 12 milioni di barili al giorno, anche fino a 12,5 milioni, mentre la Russia potrebbe arrivare a un altro record post-sovietico, 11,80 milioni al giorno. «Noi - osserva Simonov - calcoliamo che il nostro budget va in pari con il petrolio a 42,40 dollari il barile. Sotto questa soglia dobbiamo mettere mano alle riserve, al di sopra le accumuliamo. Così funziona il meccanismo del bilancio russo. Mentre secondo le nostre stime, il budget saudita va in pareggio con il petrolio a 80 dollari il barile: noi riteniamo che i sauditi non reggeranno a lungo ai prezzi attuali».
Eppure, secondo il direttore del Fondo per la sicurezza energetica, in questa scommessa di Mosca al ribasso si nascondono «due rischi colossali: perché dichiariamo contemporaneamente due guerre del petrolio». Agli Stati Uniti e all’Arabia
Saudita. «Nel primo caso - dice Simonov - il rischio per la Russia è legato alla colossale capacità di sostegno degli americani ai propri produttori shale, attraverso i sussidi. Nel 2008, pur essendo un sistema liberista, gli Usa hanno riversato sussidi statali alle compagnie private. Lo stesso potrebbe accadere qui: loro sono in grado di sussidiare le compagnie all’infinito. E Donald
Trump lo farà, finché sarà presidente: qui il rischio è enorme».
Quanto ai sauditi, il calcolo del bilancio in pareggio a 80 dollari il barile è da prendere con cautela: «Perché in Arabia, a differenza che in Russia, non rendono pubblici i loro bilanci e la capacità di spesa».
Loro possono contare su guadagni aggiuntivi, perché una cosa è estrarre 10,5 milioni di barili, un’altra venderne 12,5: «I sauditi hanno costi di produzione inferiori di dieci dollari il barile: per loro, qualunque vendita è un profitto. In questo senso, anche qui calcolare che fra tre mesi il loro budget si disintegrerà, così come pensare che gli americani non sosterranno finanziariamente i loro produttori, appare abbastanza ingenuo. Soltanto il tempo dirà se la scelta del governo russo è stata corretta: ma i rischi, su entrambi i fronti, sono piuttosto alti».
E forse è per questo che Novak, il ministro dell’Energia, ripete di non aver chiuso la porta all’Opec. «Non tutto è perduto - nota Aleksandr Frolov, vicedirettore dell’Istituto nazionale dell’energia - presto le parti torneranno a incontrarsi e troveranno un accordo. Magari la Russia accetterà un piccolo taglio produttivo, simbolico. Per tranquillizzare i mercati».