Quando l’emergenza restringe le libertà meglio un decreto legge che un Dpcm
Per prevenire il coronavirus nel nostro Paese, il Governo ha progressivamente approvato una serie di provvedimenti di emergenza, attraverso l'utilizzo di quattro fonti di diverso rango: tre decreti-legge; tre decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.p.c.m.); una delibera del Consiglio dei Ministri ed un’ordinanza del Ministro della salute.
In sé, provvedimenti emergenziali non sono una novità. Tanto perché, storicamente, lo «stato di eccezione» è uno dei concetti più studiati, previsto pure in alcuni testi costituzionali (come l’art. 16 della Costituzione francese della V Repubblica o, prima ancora, l’art. 48 della Costituzione di Weimar); quanto perché, proprio negli ultimi anni, il nostro sistema delle fonti ha visto – sotto la spinta di calamità naturali ma anche di “grandi eventi” - una straordinaria espansione di quelle fonti di secondo grado che, come le ordinanze amministrative fondate sulla contingibilità e l’urgenza, sono divenute ormai fonti normative sempre più rilevanti e frequenti dello “stato di emergenza” (basti vedere le prassi evidenziate da un recente studio di Edoardo Raffiotta).
Così, dentro un tempo che ha visto, di fronte al fenomeno del terrorismo internazionale, molti Paesi adottare in emergenza atti fortemente restrittivi pure delle libertà fondamentali, a tutela della sicurezza, sempre più anche in Italia hanno preso campo provvedimenti amministrativi che, sotto la pressione della necessità e dell’urgenza, pur nel rispetto del principio di legalità, si sostanziano di contenuti ampi e flessibili rispetto a quanto stabilito dalla stessa legge che dà loro fondamento; arrivando così a delineare - in ragione appunto di un potere extra ordinem del Governo - una normalizzazione amministrativa dell’emergenza.
Ciò è tollerabile, laddove non sia possibile adottare, per ragioni diverse e contingenti, quello strumento normativo ad hoc che la Costituzione prevede, all’art. 77, proprio «in casi straordinari di necessità e di urgenza», ossia il decreto-legge.
Diviene, invece, problematico, laddove l’uso di una fonte normativa di rango secondario limiti le libertà costituzionali come la libertà di circolazione – questo è il punto - su l'intero territorio nazionale. Isole comprese, come si dice.
Una scelta del genere, infatti, nonostante l'uso distorto che negli anni si è fatto del decreto-legge da parte di tutti i Governi, rappresenta un serio problema, in quanto degrada e svilisce le libertà costituzionali ad un livello che non meritano; non da ultimo perché, dentro quella superiorità che il criterio di gerarchia delle fonti riconosce al decreto legge, vi è la garanzia suprema di un atto che, proprio per la sua delicatezza, passa nelle mani (e negli occhi) tanto del Capo dello Stato quanto, poi, del Parlamento, chiamato alla sua conversione. È lecito chiedersi: può il Parlamento, in sede di conversione dei decreti-legge all’esame delle Camere, affrontare questa grave criticità dell'uso del d.p.c.m.?
E se le Camere fossero impossibilitate a svolgere appieno, nei prossimi giorni, la loro funzione? Intanto, in linea con altri ordinamenti, si potrebbe votare ricorrendo a procedure parlamentari “di emergenza”, come il già proposto voto a distanza. E poi, persino in quel caso, si potrebbe procedere con la reiterazione dei decreti legge sanando in quel momento i problemi posti dai d.p.c.m.
D’altronde, sebbene sia la stessa emergenza in sé, come sottolineava Santi Romano, la fonte del diritto in grado di derogare alle regole ordinarie, questo valeva per lo Statuto albertino. Per la Costituzione repubblicana esistono – non a caso - fonti normative ad hoc. Che, allora, in casi di emergenza che coinvolgono l’intero territorio nazionale, sarebbe opportuno adottare.