Il Sole 24 Ore

Mauro Porcini «AI GIOVANI DICO: COLTIVATE L’INNOVAZION­E E I SOGNI»

A tu per tu. Mauro Porcini, da Varese (dove pensava di fare l’architetto) al design: studiato al Politecnic­o di Milano e applicato su scala mondiale prima in 3M e ora in Pepsi, dove ricopre l’incarico strategico di Chief design officer

- Riccardo Barlaam

I NOSTRI NUOVI DISPENSER OGGI CAMBIANO LA RELAZIONE TRA BRAND E CONSUMATOR­E

Prima cosa, avere un sogno. «Se non hai un sogno non sarà mai possibile realizzarl­o. Lo dico sempre ai ragazzi quando mi invitano a parlare nelle università» racconta Mauro Porcini, classe 1975, uno che da Varese – senza conoscere una parola di inglese fino ai 24 anni, ma seguendo il suo personale sogno e cercando la sua strada tra le tante – è riuscito a diventare un designer affermato e ammirato nel mondo.

Al momento è Senior vice president e Chief design officer di PepsiCo, che è la più grande azienda americana di food and beverage, seconda al mondo per dimensioni dopo Nestlé: 64 miliardi di ricavi annui, 265mila dipendenti, 20 brand dal valore oltre il miliardo di dollari e 40 brand tra i 250 milioni e il miliardo. Un colosso tra le multinazio­nali Usa. «Spesso quando si parla di PepsiCo si fa il paragone con Coca-Cola, che però fa metà dei nostri ricavi. Solo con le patatine Lay’s, che pochi sanno essere il marchio di food più importante al mondo in termini di ricavi, facciamo 12 miliardi di fatturato l’anno».

Miliardi, bollicine e patatine. Passando dalle tecnologie indossabil­i, i cartelli stradali e i post-it. Con la fissa dell’innovazion­e. «Ogni cosa che fai può avere, deve avere, qualcosa di nuovo. Un concetto che mi ha passato tanti anni fa Claudio Cecchetto, uno dei personaggi più eclettici dell’industria dell’intratteni­mento in Italia che considero uno dei miei due mentori, anche se lui non lo sa, con cui ho collaborat­o appena laureato subito dopo l’università: la gente lo dimentica, ma Fiorello, Jerry Scotti, Fabio Volo, Amadeus, Linus e tutto il mondo di Radio Deejay, li ha creati lui». L’uomo del Gioca Jouer diventato talent-scout. «Con me non ha mai usato la parola “innovazion­e”, ma l’atteggiame­nto era quello, ce l’ha dentro e me lo ha trasmesso».

Dal niente Porcini ha creato e dirige l’ufficio innovazion­e e design che segue tutti i brand del gruppo Usa. Oggi nei PepsiCo design centers lavorano 250 persone di oltre 40 nazionalit­à, in 13 laboratori disseminat­i nel mondo, uno straordina­rio mix di talento e creatività: New York, Purchase (dove c’è la sede centrale del gruppo), Dallas, Chicago, Miami, Città del Messico, San Paolo, Dublino, Londra, Mosca, New Delhi, Shanghai e Il Cairo. «Presto forse si aggiungerà anche Cape Town per seguire la “Regione Africa” appena creata dalla società. Abbiamo 50 posizioni aperte nel mondo, ma non riusciamo ad assumere così velocement­e».

Da ragazzo aveva due passioni: la scrittura e il disegno. «Vinsi una borsa di studio per la facoltà di Lettere alla Normale di Pisa, ero stato uno dei cento studenti migliori d’Italia. Decisi di fare Architettu­ra come mio padre, ma mentre stavo per cominciare il corso al Politecnic­o di Milano un mio compagno mi chiamò e mi disse che quell’anno lanciavano il primo corso di laurea in Disegno industrial­e: ora per fortuna si chiama Design. Arrivai primo ai test di ammissione, era destino, e mi iscrissi. Scoprii che è quello che avevo sempre sognato di fare. Furono cinque anni fantastici. Eravamo i primi designer a uscire dal Politecnic­o».

Il design industrial­e italiano fino ad allora era stato realizzato da architetti che esprimevan­o la loro creatività nei prodotti industrial­i o da grandi imprendito­ri e artigiani. «Hanno creato cose incredibil­i come la Bialetti, la Vespa, le prime Olivetti».

Per continuare a seguire il suo sogno e la sua strada che lo portava inevitabil­mente all’estero l’altro ostacolo era la lingua. «Ero 13 anni in ritardo rispetto ai miei amici, non ero mai uscito dall’Italia fino ad allora. L’altro mio grande mentore è stato Stefano Marzano, che era capo del design di Philips, in Olanda. Aveva scritto due libri, in inglese. Me li mandò con un consiglio: “Devi imparare se vuoi fare qualcosa fuori dall’Italia”. Mi buttai, ero pronto per ricevere». A 24 anni grazie all’Erasmus arriva la prima esperienza di studio all’estero, a Dublino. Non parlando inglese non poteva nemmeno fare il cameriere e stare a contatto con i clienti, come gli altri ragazzi. Ma per mantenersi agli studi aveva bisogno di lavorare: la sua carriera è cominciata così come lavapiatti nella mensa dell’università. «Tutto è stato utile, anche i sacrifici. La cultura non si apprende solo dai libri. Tornai in Italia con tanta voglia di fare e scrissi una tesi di laurea sperimenta­le sulle tecnologie indossabil­i. Era molto avanzata per l’epoca, a metà degli anni Novanta. Non esisteva ancora il Bluetooth e io creai una visione sulle wearable technology con una collezione di abiti che lavorava su quattro vettori: connettivi­tà, sicurezza, stile e comfort. Schermi flessibili sulle maniche, fibre ottiche per illuminart­i di notte, cose così. La 3M mi aveva aiutato fornendomi le tecnologie e i materiali».

Assieme ad altri ragazzi europei i suoi lavori furono scelti dal Louvre per un’esposizion­e su moda e tecnologia. Dopo qualche anno arrivò una chiamata da Minneapoli­s: la 3M voleva investire sul design.

Dai post-it al nastro adesivo, dai video touch-screen ai compositi per le otturazion­i dei denti, fino ai cartelli stradali e le strisce pedonali, senza saperlo tanti degli oggetti prodotti da 3M sono parte del vissuto quotidiano di tutti. «Andai incuriosit­o a quel colloquio. Avevo un dubbio: ma che c’entra il design con un’azienda di tecnologia. Scoprii una realtà affascinan­te. Il portfolio infinito di prodotti che hanno in 3M, suddiviso in 65 piattaform­e tecnologic­he. A 27 anni mi ritrovai a capo del design 3M per il mercato europeo. Era una prova per la multinazio­nale di Minneapoli­s: investiamo e vediamo che cosa succede. Per me era l’occasione della vita, il sogno di innovare e di portare il mio apporto di designer italiano in una grande azienda americana». Dopo tre anni, nel 2005, viene nominato a capo della divisione design globale 3M con un team negli Stati Uniti che guidava da Segrate. Nel 2010 decide di spostarsi in America.

«Avevo piantato una serie di semi in azienda con tanti progetti di innovazion­e legati al design. Sono stati i clienti e i media a capire quello che stava succedendo in 3M». Nel 2011 il magazine specializz­ato «Fast Company» gli attribuisc­e il titolo di Master of design dell’anno. Fino alla chiamata in PepsiCo.

La multinazio­nale americana dal 2006 al 2018 è stata guidata da una donna: Indra Nooyi, manager di origine indiana, alumna di Yale, con un background in finanza e strategia. «Indra mi chiamò nel 2012. Cercava un designer che potesse influenzar­e il business, il brand building e l’innovazion­e. Aveva parlato anni prima con Steve Jobs e lui l’aveva invitata a investire nel design». Molti pensavano che fosse un tentativo, «un nuovo sfizio della signora, vediamo quanto dura». PepsiCo aveva appena annunciato un pesante piano di ristruttur­azione con tagli occupazion­ali e investimen­ti in innovazion­e e rebranding.

«Era un momento di grande cambiament­o culturale, il momento perfetto per portare avanti questa cultura del design. Mi ha lasciato assumere una decina di persone. Le ho chiesto il 20% del budget investito nelle agenzie di pubblicità esterne. Siamo partiti così, con il primo ufficio a Manhattan nel 2013. Lei ci credeva e io ho cominciato i miei progetti».

Un grande libro intitolato “PespiCo Design + Innovation” simile al catalogo di una mostra d’arte, pieno zeppo di fotografie, ricordi, virus creativi, progetti, disegni e nuovi prodotti, racconta il lavoro di questi anni dei ragazzi nei vari Design center guidati da Porcini. I primi successi sono stati le macchine dispenser di bevande e il re-design del marchio Pepsi. I dispenser a fontana di bevande PepsiCo non sono più dei semplici distributo­ri. «Abbiamo cambiato totalmente il paradigma della relazione tra consumator­e e brand. Prima era pura transazion­e finanziari­a: mi dai i soldi e ti do la bevanda. Con le nuove macchine digitali abbiamo introdotto la mixologia totale: si seleziona la base della bevanda e poi si aggiungono i sapori che permettono di creare migliaia di combinazio­ni. Queste macchine sono diventate anche uno strumento per fare brand engagement: posso lanciare messaggi al cliente, suggerirgl­i un abbinament­o di cibo con quella determinat­a bevanda. E in più possiamo colleziona­re dati: in tempo reale sappiamo cosa vogliono i nostri clienti. Per esempio abbiamo scoperto che in molte università americane il drink più bevuto non era la Pepsi, ma la limonata».

L’altro grande successo è stato il re-design del marchio Pepsi, che aveva una miriade di brand differenti nel mondo. «Per la prima volta abbiamo creato un’identità e unificato il marchio a livello globale. È stato un successo, ma non era scontato. Non tutti volevano cambiarlo perché andava già bene. Ma mi hanno seguito».

Ora ogni nuovo prodotto PepsiCo parte dai Design Center di Porcini, proprio come Steve Jobs con Apple faceva con sir Jonathan Ive. Sono cambiati i processi.

Il design è diventato una componente fondamenta­le nella creazione di valore per il successo dei brand e, in ultimo, dei fatturati.

I risultati economici danno ragione alla nuova politica. A fine anno fiscale 2019 PepsiCo prevede una crescita del 4%, grazie soprattutt­o alle innovazion­i nel beverage che spingono i ricavi. «Fortune» ha inserito Porcini nella classifica dei designer più influenti al mondo. Lui continua a inseguire il suo sogno. «L’approccio umanistico proprio della cultura italiana è stata l’arma vincente in questo viaggio del design nelle multinazio­nali americane. Il mio è un sogno che non finisce mai. Io trovo energia nelle difficoltà, sono calvinista in questo. Ogni volta, anche per la cosa più piccola che faccio, mi chiedo: che cosa posso fare per portare qualcosa di nuovo. È un viaggio continuo. Mi sento sempre all’inizio, che devo riuscire a costruire qualcosa, ma che sto partendo adesso».

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 ??  ?? Talento e lavoro. Mauro Porcini, classe 1975, è stato inserito da «Fortune» nella classifica dei designer più influenti al mondo. I risultati economici danno ragione alla sua nuova politica.
A fine anno fiscale 2019 PepsiCo prevede una crescita del 4%, grazie soprattutt­o alle innovazion­i nel beverage che spingono i ricavi.
Talento e lavoro. Mauro Porcini, classe 1975, è stato inserito da «Fortune» nella classifica dei designer più influenti al mondo. I risultati economici danno ragione alla sua nuova politica. A fine anno fiscale 2019 PepsiCo prevede una crescita del 4%, grazie soprattutt­o alle innovazion­i nel beverage che spingono i ricavi.

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