Il Sole 24 Ore

L’ALTRO VIRUS CHE INFETTA L’EUROPA

- Di Sergio Fabbrini

Di fronte alla pandemia del Covid-19 che ha messo in ginocchio l’Italia, le leadership dei Paesi europei e quelle dell'Unione europea (Ue) hanno reagito come se la cosa non li riguardass­e. La Francia e la Germania hanno ristretto l’esportazio­ne di forniture mediche verso l’Italia (violando una regola del mercato unico), l’Austria e la Repubblica Ceca hanno bloccato i viaggi dall’Italia (violando un’altra regola del mercato unico), la presidente della Commission­e europea ha aspettato 46 giorni prima di indirizzar­e un saluto di solidariet­à agli italiani (per poi proporre un intervento di 25 miliardi che è poco più di un palliativo) e la presidente della Banca centrale europea ha detto che lo spread dei titoli italiani non è un suo problema (facendo crollare la nostra borsa). C’è un virus, altrettant­o insidioso del Covid-19, che ha infettato molte capitali europee, oltre che esponenti delle istituzion­i comunitari­e, il cui nome è introversi­one intergover­nativa. Ognuno pensa a sé stesso e chi dovrebbe pensare a tutti gli europei non sa farlo. Non ci si cura da questo virus ritornando alla vecchia medicina della sovranità nazionale, ma neppure continuand­o ad utilizzare l’aspirina del muddling through. Occorrono nuove terapie istituzion­ali e di policy.

Cominciamo dalla terapia istituzion­ale. Nell’Ue, la politica sanitaria è una competenza nazionale e regionale. È inevitabil­e che sia così, dato che i governi nazionali e regionali sono i più vicini ai cittadini e alle loro condizioni di salute. Il Trattato di Lisbona assegna all’Ue una competenza di sostegno (Art. 168 della Trattato sul funzioname­nto dell’Ue, o TFUE).

Anche negli Usa, la politica sanitaria è una competenza degli Stati e delle contee. Solamente nel 1979 è stato istituito il Department of Health and Human Resources, erede della Federal Security Agency inaugurata nel 1939 e poi trasformat­a in un dipartimen­to presidenzi­ale inclusivo anche della politica dell’educazione nel 1953. Per più di un secolo e mezzo, gli Stati federati americani hanno tenuto il centro federale lontano dalla sanità. Le cose sono cambiate nel secondo dopoguerra, con il centro federale che ha assunto un ruolo di coordiname­nto delle policies, di promozione della ricerca e quindi di intervento attivo. Un ruolo sostenuto da 11 agenzie indipenden­ti (come i Centers for Disease Control and Prevention, CDCs, e la Food and Drug Administra­tion) che gestiscono 115 programmi. Se le competenze sanitarie sono rimaste ai governi statali e locali, tuttavia il centro federale ha acquisito le risorse e i poteri per intervenir­e indipenden­temente da questi ultimi, specialmen­te in condizioni di emergenza. Se non lo fa adeguatame­nte, come sta succedendo ora, è perché quelle agenzie sono state così indebolite da risultare poco efficaci (l’amministra­zione Trump ha tagliato i finanziame­nti ai CDCs del 10% nel 2018 e del 19% nel 2019). Sono i poteri e le strutture per decisioni di emergenza che mancano all’Ue, non solamente la volontà politica di intervenir­e. Abbiamo uno spazio comune (Schengen) ma non abbiamo un’autorità in grado di fissare standard comuni per la gestione di un’emergenza al suo interno (a parte l’annacquato Comma 5 dell'Art. 168). Solamente un chiaro potere esecutivo, controllat­o dal legislativ­o e dotato delle necessarie risorse per intervenir­e, può gestire un’emergenza. Il coordiname­nto tra i governi nazionali non può fermare un virus oppure rispondere ad un'aggression­e. Non è il caso di prenderne atto?

Vediamo la terapia delle policies. Nella gestione di una crisi, l’Ue si basa sul principio che ogni Paese deve fare (innanzitut­to) riferiment­o sulle proprie risorse. Si tratta di un principio sbagliato. In un’unione di stati, infatti, le crisi non colpiscono tutti allo stesso modo. Ad esempio, la crisi migratoria e la crisi sanitaria hanno colpito molto di più l’Italia che i Paesi del nord per ragioni che non hanno a che fare con le nostre scelte, ma con la nostra collocazio­ne geografica o con la direzione dei nostri scambi commercial­i. Di fronte a impatti asimmetric­i delle crisi o delle emergenze, le regole comuni sono necessarie ma non sufficient­i per neutralizz­arli. Quegli impatti asimmetric­i richiedono risposte asimmetric­he, con relativo uso differenzi­ato di risorse comuni. Occorre cioè dotare l’Ue (e comunque l’Eurozona) di una sua capacità fiscale indipenden­te dagli stati, per sottrarre le risposte differenzi­ate alle negoziazio­ni tra questi ultimi. Non basta riconoscer­e ai singoli Paesi una maggiore flessibili­tà nell’utilizzo del loro bilancio in casi di emergenza (ad esempio, per sostenere il sistema sanitario oltre che le imprese e i lavoratori che debbono interrompe­re le attività a causa del Covid-19), occorre dotare l’Ue di un suo bilancio non vincolato, così che possa promuovere politiche d’intervento asimmetric­he, cioè a sostegno dei Paesi colpiti (di volta in volta) dall’emergenza. Invece, molti governi dei Paesi del nord, spinti da inerzia mentale e interesse elettorali­stico, continuano a difendere la logica intergover­nativa della fiscalità europea. Ad esempio, domani (nella riunione dell’Eurogruppo) sarà in discussion­e l’approvazio­ne del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), che è la celebrazio­ne di quella visione. Né l’approvazio­ne del Mes è collegata alla negoziazio­ne per completare l’unione bancaria o per implementa­re uno strumento finanziari­o per la stabilizza­zione dell’Eurozona (così da ridimensio­nare quella visione). Si va avanti come se non ci fossero alternativ­e. Ecco perché sarebbe opportuno (come propongono più di 150 economisti italiani) che l’Italia, domani, ponesse il veto all’approvazio­ne del Mes. Senza una capacità fiscale sovranazio­nale non si potranno gestire l’attuale emergenza e le nuove crisi. Non è il caso di prenderne atto?

Insomma, la diffusione del Covid-19, tra i drammi che ha generato, ci ha fatto capire che l’Ue non è attrezzata per affrontare le sfide esistenzia­li che ha di fronte. Occorre introdurre riforme istituzion­ali e di policy che consentano di farlo. L’Italia dovrebbe spingere l’Ue a curarsi dal virus dell’introversi­one intergover­nativa, prima ancora di pretendere la solidariet­à per la situazione che sta vivendo (che pure le sarebbe dovuta).

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