Per le banche è la doccia più gelata di sempre Risale la febbre da fusioni
Il mercato sconta un calo degli utili di un terzo nel 2020, ma dipende dai singoli attori: ai più deboli servirà un approdo
Nel pieno di una delle fasi più turbolente dal Dopoguerra, le banche italiane si aggrappano ad alcune certezze e fanno i conti con le (molte) incognite. E provano così a ragionare sugli effetti che il Coronavirus è destinato inevitabilmente a lasciare sul campo. Il tutto nella speranza che la Bce, dal versante della politica monetaria, l’Ue, su quello della politica fiscale, diano risposte «ambiziose e concertate», come auspicato dalla Lagarde, alla crisi in atto.
Con un elemento chiaro: di fronte a uno scenario estremo come una pandemia, nessuno può ritenersi indenne, in Italia come nel resto del mondo. Se però si vuole concentrare l’attenzione sul nostro paese, che in questo momento è tra i più impattati almeno sotto il profilo dell’emergenza sanitaria (e dei possibili danni economici derivanti), è possibile che lo scenario sia di un’ulteriore polarizzazione del mercato tra chi può reggere l’onda d’urto e chi, invece, rischia di annaspare tra le onde.
Il Pil e gli effetti sui prestiti
Partiamo da un dato. Il 2020 è destinato a finire con un frenata pesante dell’economia. La serrata di imprese e negozi sta già riducendo l’offerta. Ma a ciò rischia di aggiungersi uno shock della domanda, complice una crisi che avrà impatti su occupazione e redditi. Oggi gli analisti stimano un calo del Pil nell’ordine del 2%, e il mercato sembra oramai incorporare questo decremento, a cui dovrebbe seguire un rimbalzo nel 2021. Di quanto, lo si capirà solo col tempo, e in virtù dell’intervento pubblico, che dovrà necessariamente sostenere la domanda.
Un deterioramento così violento su domanda e offerta è paragonabile a un’ondata che entra da più varchi e in contemporanea. Quello più critico, e da cui bisogna attendersi il peggio, è il fronte della qualità del credito: il flusso dei nuovi crediti deteriorati (il cosiddetto default rate) è destinato ad aumentare. Con la crisi, molti crediti passeranno da bonis a deteriorati e sarà più difficile ristrutturare questi ultimi. Con una qualità del credito peggiore, saliranno gli accantonamenti, e quindi i costi per le banche. Equita Sim, in un’analisi curata da Giovanni Razzoli, ha evidenziato come incorporando un Pil a -1,5% il costo del rischio salga di 20 punti base (a 80 pb) nel 2020 e di 12 punti nel 2021. La Vigilanza Bce guidata da Andrea Enria, ha fatto importanti concessioni in termini di flessibilità nell’uso del capitale per far fronte all’emergenza.
Ma lo scenario resta difficile. Da qua la richiesta dell’Abi per una moratoria del calendar provisioning (gli accantonamenti prudenziali secondo quote prefissate) e della nuova definizione di default, per congelare gli effetti dell’emergenza ed evitare impatti a cascata e strette al credito.
Meno ricavi, meno utili
Ma c’è un altro doppio effetto negativo che la crisi porta con sé. Riguarda i ricavi delle banche. Perché la frenata provocherà da sola una riduzione della domanda di credito da parte di imprese e famiglie e un calo dei flussi verso prodotti di risparmio gestito, complice la minor propensione al rischio della clientela. Tutto questo significa meno ricavi per le banche, peraltro già anemici visti i tassi negativi.
Meno ricavi e maggiori costi per accantonamenti si tradurranno in minori profitti. Secondo Goldman, il calo aggregato degli utili per le principali banche italiane nei prossimi tre anni è di circa 5 miliardi, pari al 13%. Solo sul 2020, il taglio dovrebbe essere del 22%, 2 miliardi, a fronte di un -7% a livello europeo. Il mercato ha già incorporato un calo del 35% degli utili solo nel 2020. Ecco come si spiega il drammatico andamento dei listini: dal 17 febbraio le banche hanno di fatto dimezzato il loro valore in Borsa.
Un mercato polarizzato
Fin qui il mercato nel suo complesso. Ma all’interno del comparto le differenze non mancano. Chi ha lavorato negli ultimi anni su diversificazione ed efficienza oggi appare più resiliente. Equita evidenzia come le due banche più grandi (Intesa e UniCredit), un player come Credem, che ha un risibile livello di deteriorati, e un soggetto con business diversificato come Mediobanca, registrino correzioni sulla redditività attesa inferiore alla media. L’effetto possibile sarà dunque una polarizzazione nella politica di remunerazione degli azionisti, con i maggiori player capaci di mantenere un dividend yield attorno al 10%, un livello doppio rispetto alla media del settore. Ma l’altro effetto a cascata, è che le banche «dovranno riconsiderare la sostenibilità delle loro strategie stand-alone una volta che lo shock sarà assorbito». Occhi puntati su Ubi, al centro dell’offerta lanciata da Intesa Sanpaolo attualmente al vaglio delle autorità europee. O su Bper, a sua volta coinvolta nell’operazione: non è da escludere - si ragiona sul mercato - possa intervenire su Mps, ovviamente dopo la necessaria pulizia da parte di Amco. E che a questa maxi-operazione possa prendere parte Banco-Bpm.