Negli Stati Uniti partono i primi test sull’uomo per il vaccino
Nelle strutture sanitarie vanno concentrate le urgenze e le patologie acute La gestione di cronicità e altre malattie va affidata ai team dei medici di famiglia
Il coronavirus sta avendo effetti molto seri e pesanti sulla quotidianità di tutti. Questa infezione si sta caratterizzando in particolare per un aspetto molto rilevante: il suo impatto sul Servizio sanitario.
Sicuramente il dato (fonte Gimbe al 11 marzo 2020) che colpisce di più è quello relativo alle ospedalizzazioni: 51,6% dei casi di cui, e questo è il vero problema, il 7,6% ricoverato in terapia intensiva.
La terapia intensiva è una unità particolare per pazienti che richiedono una elevata intensità assistenziale e di cura e finora i posti letto dedicati erano programmati sulla base del fabbisogno medio per i casi gravi in un regime ordinario. La situazione in questo momento, ovviamente, non è ordinaria e ciò ha richiesto a Regioni quali Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna di riprogrammare la rete di offerta ospedaliera, al fine di aumentare i posti letto e il personale dedicato.
Il vero rischio è arrivare a un punto in cui il numero di pazienti che richiedono un ricovero in terapia intensiva dovesse superare la capacità di risposta del Sistema.
Per evitare che questo accada da un lato è imperativa la riduzione dei contagi e quindi l’adozione di comportamenti responsabili (#iostoacasa), dall’altro è necessario ripensare il sistema di offerta secondo criteri che, in realtà, saranno molto utili anche quando l’emergenza sarà finita. Proviamo a vedere questi criteri.
In primo luogo è e sarà sempre più necessario considerare i pronto soccorsi e gli ospedali come le strutture in cui viene data risposta alle urgenze, alle emergenze e alla gestione della fase acuta della patologia. Veniamo, purtroppo, da un periodo in cui, spesso, l’accesso al pronto soccorso non era motivato da una vera e propria emergenza e la domanda di prestazioni sanitarie avrebbe dovuto essere rivolta ad altri contesti. Spesso, poi, pazienti cronici continuano a trovare risposta in ambito ospedaliero anche se, come si diceva, l’ospedale non è pensato per la gestione di questa tipologia di pazienti.
In secondo luogo è necessario interrogarsi su quali debbano essere gli ambiti di cura maggiormente appropriati per i pazienti che non devono e che non dovranno più recarsi in ospedale. Ecco come il tema della riorganizzazione delle cure primarie, dei servizi domiciliari e di tutta l’attività sub e post acuta risulta essere una assoluta priorità (si pensi che il 33,3% dei pazienti affetti da coronavirus è in isolamento domiciliare). Emerge ancora una volta il fondamentale ruolo dei Medici di medicina generale e del personale delle professioni sanitarie (infermieri in primis) organizzati sul territorio in Case della Salute che offrono una risposta pronta ed efficiente al bisogno di salute della nostra popolazione. Non solo in questo periodo di emergenza (e gli operatori del Servizio sanitario nazionale sono a tutti gli effetti gli eroi di questi giorni) ma anche quando sarà passata la tempesta e si tornerà alla vita quotidiana.
Diventa quindi importante sviluppare una rete di cure primarie in cui finalmente vengano applicati i dettami normativi che prevedono forme associate non solo tra Medici di medicina generale (Mmg) ma anche con infermieri, assistenti sociali e tutti gli operatori delle professioni sanitarie. Questo al fine di poter prendere in carico i pazienti cronici, frequentemente polipatologici, rispondendo ai loro bisogni all’interno di strutture a minore livello di intensità come ospedali di comunità e di distretto (soprattutto per i post acuti) o le Case della Salute e rafforzando i servizi domiciliari integrati (sia nella componente socio sanitaria che in quella socio assistenziale).
In diverse zone d’Italia queste realtà sono già attive (nelle Regioni del Nord Est, in Lombardia, in Emilia Romagna e in Toscana soprattutto), ma si deve passare dalle sperimentazioni e dalle eccellenze sparse a macchia di leopardo ad una vera e propria disseminazione delle esperienze, affinché diventino patrimonio comune di tutto il Servizio sanitario nazionale.
In pratica questo significa che si devono sviluppare modelli organizzativi e gestionali che integrino la componente clinica con quella manageriale in cui vengono ripensati gli ambiti di cura, le responsabilità e le scelte cliniche. Ad esempio, chi deve gestire il paziente con Bpco – Bronco pneumopatia cronico ostruttiva, lo pneumologo o il Mmg? E chi si deve preoccupare che tutti questi pazienti facciano la spirometria (esame fondamentale)?
La risposta è che il Mmg, insieme agli Infermieri, devono avere un ruolo sempre più centrale diventando gli unici referenti, nelle loro pratiche associate (tecnicamente si chiamano Aggregazioni funzionali territoriali, Aft e sono già previste dalla normativa in tutto il territorio nazionale). Lo stesso esempio potrebbe essere fatto per i pazienti con Scompenso, per cui ad esempio vi è la possibilità di un rinnovato e più centrale ruolo per il personale infermieristico.
La strategia, quindi, non solo è chiara ma è inevitabile; la vera sfida sarà nell'inversione del processo legato al personale del Ssn, oggetto negli ultimi anni di tagli e riduzioni e caratterizzato da un’età elevata spesso prossima alla pensione. Come stiamo vedendo in questi giorni serviranno sempre più infermieri, medici, personale clinico dedicato: l’esatto contrario delle scelte (assolutamente bipartisan) che hanno caratterizzato questi ultimi anni.
Se da un lato, quindi, dobbiamo ricordarci di ringraziare sempre di avere un Servizio sanitario universale, fondato sull’uguaglianza dei cittadini, sull’equità di accesso e sulla centralità della persona, dall’altro non dobbiamo dimenticare di imparare dalle situazioni di crisi per migliorare ancora e ricordarci che in sanità ogni euro non è mai speso ma investito in salute, la nostra e quella delle generazioni future.