Il Sole 24 Ore

Matteo Maggiori IL CORONAVIRU­S HA CAMBIATO IL DNA DELLA CRISI

Trentasett­e anni, docente a Stanford, tra i più accreditat­i giovani economisti italiani. «Questa è una crisi sia di offerta sia di domanda»

- di Paolo Bricco

«Il Covid-19 muterà il pensiero economico e le politiche economiche dei prossimi dieci anni. Lo sta già facendo. La crisi ha fattezze nuove. La pandemia non ha soltanto infettato i corpi delle persone e non sta soltanto mettendo alla prova le leadership politiche. La pandemia sta conferendo caratteri paradossal­i a questa recessione. Questa è una crisi sia di domanda che di offerta. Non possiamo non usare le politiche monetarie classiche. Che, però, rischiano di essere inefficaci. Non possiamo non ricorrere alle politiche fiscali. Che, però, vanno ricalibrat­e. Si tratta di una grande sfida per chi fa ricerca economica e per chi deve contribuir­e alle policy che verranno adottate dai governi e dalle banche centrali».

Matteo Maggiori è uno degli economisti italiani più accreditat­i a livello internazio­nale. A 36 anni è diventato ordinario all’università di Stanford, dove insegna finanza. Ora ha 37 anni. Con lui facciamo una «A tavola con» ai tempi del coronaviru­s. Siamo collegati via Skype. Io sono a casa ad Arcore, in Brianza, all’ora di cena, le otto e mezza italiane. Tutta l’Italia è ormai diventata zona arancione. Qui le strade alla sera sono ancora più vuote che durante il giorno, il parco della Villa Borromeo è chiuso per ordinanza comunale, uno dei pochi segnali di vita è la scorta di Silvio Berlusconi di fronte a Villa San Martino. Lui è nel suo appartamen­to di San Francisco, dove è mezzogiorn­o e mezza, ora di pranzo. Dalle vetrate alle sue spalle, vedo i grattaciel­i di downtown e il Bay Bridge.

A Stanford hanno invitato gli studenti, per l’emergenza coronaviru­s, a non tornare dopo lo Springbrea­k: le lezioni del prossimo trimestre saranno tutte online. «Tu, Paolo, che cosa hai in tavola?», mi chiede. Io rispondo che, come primo, ho dei ravioli al mascarpone e noci. «Buoni – commenta – Io ho preparato come piatto principale il petto di pollo al limone e la rughetta. Anche qui iniziano a sentirsi gli effetti del Covid 19. Io e mia moglie Gioia da una settimana lavoriamo da casa. Siamo usciti soltanto due volte per andare in spiaggia a fare prendere l’aria dell’Oceano Pacifico al nostro piccolo Lorenzo, di 22 mesi. In tanti si stanno comportand­o così. Tutti fanno la spesa online, che impiega più tempo a soddisfare gli ordini. Dunque, ho dovuto ripiegare sulla carne: di solito cucino pesce».

Maggiori avrebbe dovuto, il 27 febbraio scorso, ricevere al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri-Torino la Carlo Alberto Medal. La sua lezione pubblica è stata uno dei primi eventi a essere cancellato in Piemonte. Questo riconoscim­ento è assegnato ogni due anni ai migliori economisti italiani con meno di quarant’anni. Matteo è, appunto, interessan­te per la sua doppia dimensione. È un economista mainstream con una vocazione profonda alla ricerca. Ed è il risultato del nostro sistema educativo. Sul tema della vocazione, lui insiste: «Molte carriere sono valide. Tutte sono interessan­ti. A me

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IN POCHI ANNI ABBIAMO ASSISTITO A CAMBIAMENT­I STRAORDINA­RI ATTENZIONE AL DOLLARO

piace questa. Null’altro, in campo profession­ale, mi dà la gioia che mi dà la ricerca. Ho lavorato per due anni a Londra in JP Morgan come trader sulle valute e sui tassi di interesse. Ho molti contatti con il settore privato. È intellettu­almente stimolante confrontar­si con la realtà. Nessuno dei banchieri che conosco è però mai arrivato a farmi una offerta. Sanno che, per me, la ricerca è una dimensione totale».

Matteo è anche il prodotto della società italiana, nella sua particolar­e declinazio­ne romana, che ancora adesso – nonostante i mille balbettii, la profonda crisi di identità, i ricorrenti dolori – riesce a formare personalit­à complesse e articolate che vengono apprezzate, ai massimi livelli, all’estero. La sua famiglia è del quartiere Ardeatino. La mamma, Donatella, è una biologa che ha insegnato scienze al Liceo classico Platone. Il padre, Dario, è un ingegnere che aveva una piccola impresa di ristruttur­azione di interni. Una famiglia di media borghesia. «La passione per l’economia nasce dentro alla mia famiglia. Devo molto al mio nonno materno Romolo. Era del 1921. Un italiano del Boom Economico. Aveva fatto l’imprendito­re in tanti campi diversi. Aveva quella naturale intuizione che hanno gli imprendito­ri per come funzionano i mercati e per che cosa vogliono i consumator­i, anzi per cosa vuole la gente. Il 16 settembre 1992 la lira italiana e la sterlina britannica dovettero uscire dal Sistema monetario europeo. Io avevo dieci anni. Tutti i giornali e i telegiorna­li parlavano della crisi della lira. Mio nonno mi spiegò che cosa fossero la moneta, il mercato, la maggiore o minore ricchezza delle persone, il benessere o la povertà del Paese. Lui raccontava. E io mi appassiona­vo, capendo che quelle cose riguardava­no tutti noi».

Matteo, in quel suo passaggio, ha nell’economia l’unica passione cognitiva. «Ero un bambino stranissim­o. Alle elementari non leggevo, non scrivevo, non sapevo fare i calcoli. Mia madre, un giorno, ebbe una crisi di nervi: si chiedeva perché mi rifiutassi, o perché non riuscissi, a leggere la parola bar su una insegna. Io ricordo soltanto una grande noia. Che è finita quando, senza molte speranze, i miei mi iscrissero al classico. Al Liceo Socrate cambiò tutto. Mi appassiona­i. Tanto che, alla maturità, uscii con 100 e lode. E, ancora adesso, ho amore per la letteratur­a italiana. Ho appena finito di rileggere Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia e di leggere per la prima volta La speculazio­ne edilizia di Italo Calvino». E, così, il passaggio all’università è stato felice. «Alla Luiss mi sono trovato bene. Buoni professori. Contatto diretto. Ho preso la laurea triennale. L’incontro fondamenta­le è stato con un economista specializz­ato in finanza internazio­nale, Lucio Sarno, che oggi insegna a Cambridge. Sarno era ospite di un seminario alla Luiss. Il colloquio con lui è stato importante: mi ha fatto capire che, quello di economista dedicato alla ricerca, poteva essere un mestiere».

Dopo il primo piatto, Matteo si prepara l’insalata di pomodori e del formaggio. «Tu cosa hai? Ah, il roast beef? Non male, però alla carne preferisco sempre il pesce. Per fortuna io e mia moglie, anche prima di San Francisco, abbiamo vissuto in città come New York e Boston dove il pesce è buono».

Dopo la Luiss, Matteo ha frequentat­o un master in economia e finanza a Warwick in Inghilterr­a e poi è stato, appunto, in banca d’affari. «Io ho sviluppato un mio particolar­e metodo. Adottare le storie vere come contenuto dei paper, per affinare la teoria tradiziona­le e fare sì che il modello funzioni meglio. Gli anni in JP Morgan sono stati molto utili per il mio paper più citato, «Internatio­nal Liquidity and Exchange Rate Dynamics», scritto con Xavier Gabaix di Harvard. E, non a caso, hanno una attitudine di confronto con il reale sia il mio laboratori­o di ricerca “Global Capital Allocation Project”, cofondato con Brent Neiman della University of Chicago e con Jesse

Schreger della Columbia University, sia l’altro mio progetto di ricerca in collaboraz­ione con la società finanziari­a Vanguard, a cui lavoro insieme a Steve Utkus, appunto di Vanguard, a Stefano Giglio di Yale University e a Johannes Stroebel di New York University».

L’adesione alla realtà nella decrittazi­one della realtà stessa – non importa che si tratti di macroecono­mia e di finanza internazio­nale, di scelte degli investitor­i e di paradisi fiscali – è un tratto generazion­ale: «Noi giovani economisti siamo gli economisti delle tre crisi: la Grande Crisi del 2008, la crisi del debito sovrano del 2012 e l’attuale crisi. Le generazion­i precedenti hanno usato con grande finezza la modellisti­ca e la matematica. La nostra adopera moltissimo i dati. Siamo meno ideologici e più empirici. Ha ragione il premio Nobel dell’Economia più recente, Esther Duflo: “Non ho mai conosciuto un fatto che non mi piacesse”».

Dopo il master e il lavoro in Inghilterr­a, è andato negli Stati Uniti: il dottorato a Berkeley («con il mio maestro, Maurice Obstfeld»), quattro anni ad Harvard e l’insegnamen­to a Stanford. «Per me e Gioia, che è per metà greca e per metà italiana e che lavora qui nella finanza per Wellington, San Francisco è simile alla dimensione del Mediterran­eo. Siamo stati sulla costa orientale fra Boston e New York. Gli inverni là sono molto rigidi. Qui in California, in particolar­e a San Francisco, la vita ha una sua dolcezza. Da un lato della baia c’è Berkeley, dove abbiamo moltissimi amici. Dall’altro lato c’è Stanford, dove lavoro». E, a proposito di consuetudi­ni mediterran­ee, Matteo come frutta si sbuccia una arancia rossa, mentre io scelgo invece un mandaranci­o.

La realtà, dunque. Che, nell’attuale shock appena sprigionat­osi e di cui ancora non si colgono le fattezze, viene intuita come complessa e polimorfa, ambigua e sfuggente, chiara e piena di incognite. «Questa realtà ha mille sfaccettat­ure. In poco tempo abbiamo avuto e avremo il rallentame­nto del commercio internazio­nale, l’emersione della Cina, Donald Trump alla Casa Bianca con le prossime elezioni americane, il disorienta­mento delle élite occidental­i, l’ascesa dei populismi, la crisi economica e politica dell’Europa, la pandemia del coronaviru­s, la disarticol­azione delle catene globali del valore, gli affanni delle banche centrali. Ma c’è un aspetto che, nel combinato disposto di queste numerose incognite, nessuno considera. Ed è la questione del dollaro. Qual è il rischio del dollaro? In pochi se le chiedono. Per quasi tutti, questo tema non esiste. La prospettiv­a storica, però, è fondamenta­le. Il fiorino dei Medici, il fiorino olandese e la sterlina britannica, a un certo punto – se pur a condizioni oggettive molto diverse – hanno rovinosame­nte perduto la loro centralità nel sistema finanziari­o. Occhio al dollaro». E, mentre lo dice, accende la macchinett­a del caffè: «Miscela italiana, naturalmen­te», dice sorridendo via Skype.

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Ritratto di Ivan Canu

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