LA STRATEGIA PER IL FUTURO NEI GIORNI PIÙ DIFFICILI
Èuna guerra. Una guerra sanitaria contro un nemico (il virus Covid-19) «invisibile e inafferrabile», per dirla con il presidente francesce Emmanuel Macron. Prima o poi, verrà vinto. Ma quando arriverà quel momento, non sarà più come prima. Con la guerra ancora in corso, tra agosto e ottobre del 1944, a Dumbarton Oaks (un posto vicino a Washington D.C.), delegazioni delle quattro potenze alleate contro l’Asse si riunirono per definire l’ordine politico mondiale da costruire nel Dopoguerra. La discussione gettò le basi per la Conferenza di San Francisco (dell’aprile successivo) che dette vita all’Organizzazione delle nazioni unite (Onu). Dumbarton Oaks faceva seguito alla Conferenza tenuta a Bretton Woods (una cittadina del New Hampshire) nel luglio precedente, dove si gettarono le basi del futuro ordine economico internazionale (con la decisione di dare vita al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale). Furono conferenze molto combattute.
A Dumbarton Oaks lo scontro fu tra chi sosteneva la necessità di ritornare al vecchio sistema nazionale-imperiale, chi voleva congelare il nascente bipolarismo e chi proponeva di creare un ordine internazionale multilaterale. Vinse quest’ultima strategia, che molti (allora) ritenevano irrealistica.
Oggi siamo di fronte a una discussione analoga. Mentre la Banca centrale europea e le istituzioni europee si sono finalmente decise a fare «tutto ciò che è necessario e anche di più» per neutralizzare il disastro economico generato dal virus, anche noi stiamo discutendo sull’ordine politico del dopo virus.
Tdell’apertura re strategie sono in campo. La prima è quella nazionalista. Per i suoi sostenitori, il Covid-19 è l’ultimo esempio dei guasti prodotti dalla globalizzazione ed europeizzazione. Per loro, occorre chiudere la lunga fase postbellica
dei mercati e della costruzione delle istituzioni politiche dell’interdipendenza, “affinché ognuno riporti a casa (per dirla con Dominic Cummings) la propria sovranità”. È, infatti, l’Inghilterra di Boris Johnson la capo-fila di tale strategia. Ma il suo modello di riferimento è l’Amministrazione di Donald Trump che, nella sua ossessione nazionalista, ha rifiutato persino l’aiuto della Organizzazione mondiale della sanità per combattere il Covid-19, in nome di “terapie che debbono essere esclusivamente americane”. Va da sé che la re-introduzione delle frontiere o la chiusura dei porti non servono per bloccare la circolazione dei virus, per arrestare i flussi migratori, per neutralizzare i disordini finanziari o per proteggerci dalle crisi ambientali.
La seconda strategia è quella intergovernativa. Essa propone di rafforzare e razionalizzare l’ordine politico ed economico esistente. Anche per i sostenitori di questa strategia, lo stato nazionale è il pilastro di qualsiasi futuro ordine politico. Tuttavia, esso può esaltare la sua funzione storica e la sua legittimazione politica solamente coordinandosi con gli altri stati nazionali. Per loro, come per Alan Milward, l’integrazione europea fu avviata per salvare lo stato nazionale, non già per renderlo obsoleto. I sostenitori di tale strategia sono sia politici che tecnici. Tra i politici, ci sono le attuali leadership della Germania e dei Paesi della coalizione anseatica, ma anche quegli attori comunitari che ritengono che il loro compito consista (per citare un recente comunicato della Commissione europea) “nel favorire il coordinamento tra i governi nazionali”. Tra i tecnici, c’è buona parte delle tecnocrazie funzionaliste europee, il cui ruolo è stato magnificato dalla necessità di trovare soluzioni sofisticate ai complessi problemi sollevati dal coordinamento intergovernativo. Per questa strategia, il nuovo ordine politico europeo dovrà avere le caratteristiche di un’unione intergovernativa, in cui i governi nazionali (gli unici dotati di una legittimazione politica) debbono sedere al posto di guida. L’esperienza ha dimostrato, però, che tale strategia non è in grado di risolvere due cruciali dilemmi politici del coordinamento intergovernativo. Quest’ultimo genera logiche gerarchiche tra governi nazionali, come abbiamo visto durante la crisi dell’euro, e produce decisioni prive di legittimazione intrinseca. I governi nazionali, infatti, sono singolarmente legittimi, ma la loro legittimità non si trasferisce sulla decisione collegiale, che nessuno (neppure il Parlamento europeo) può sanzionare. L’unione intergovernativa funziona solamente sulla base di un disciplinamento regolativo dei suoi membri, disciplinamento che è destinato a generare l’implosione del coordinamento stesso.
Entrambi (i nazionalisti e gli intergovernativi) hanno una visione univoca della sovranità. Essa appartiene esclusivamente allo stato nazionale, che deve gestirla autonomamente (per i primi) o in maniera coordinata con gli altri stati nazionali (per i secondi). Tuttavia, la sovranità, sul piano empirico, può essere spacchettata tra policies che hanno un carattere sovra-statale e policies che possono rimanere sotto il controllo dei singoli stati. In questa direzione vanno le numerose proposte avanzate in questi giorni. Basti pensare a quella di Mario Monti e Guido Tabellini oltre che di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio affinché l’Eurozona si doti di Eurobond o di Health Bond. Oppure ai numerosi appelli sottoscritti da centinaia di studiosi (come quello promosso da Aidan Regan sul Financial Times o da Roberto Castaldi e Daniel Innenarity in rete) affinché l’Eurozona si doti di risorse autonome per perseguire una sua politica fiscale capace di contrastare, insieme a quella degli stati, gli effetti del Covid-19. Queste proposte identificano, in forme diverse, la strategia di costruire un ordine politico europeo basato sulla distinzione tra la sovranità degli stati e quella dell’unione sovranazionale. La sovranità non è un gioco a somma zero, in virtù del quale la si vince o la si perde.
Insomma, anche in Europa c’è un dibattito in corso per definire l’ordine politico ed economico del dopo Covid-19, un dibattito non diverso da quello che si svolse a Dumbarton Oaks. In quella Conferenza, si riuscì a pensare a un mondo ritenuto fino a quel momento impensabile, anche oggi si può e si deve pensare a un’Europa che non si è ancora pensata. Gli ostacoli all’impensabile sono spesso nella nostra testa, prima ancora che nella realtà.