Rischio fallimento per il settore shale oil
Con il greggio a 20 dollari al barile quasi 130 miliardi di emissioni delle società americane vanno verso il fallimento Temuto l’effetto valanga su tutte le obbligazioni delle società
Bond.
È nelle pianure del Texas la miccia che potrebbe far esplodere la bomba del debito corporate. Le emissioni delle società dello shale oil sono la parte più tossica del mercato obbligazionario. E oggi il loro valore si è quasi azzerato, sollevando il timore di ricadute ad ampio raggio.
Mentre la pandemia da coronavirus spinge il mondo intero in recessione, qualsiasi impresa è in difficoltà. Ma non c’è nessun settore – nemmeno quello, davvero martoriato, dei trasporti aerei – che negli Stati Uniti stia soffrendo più dell’Oil & Gas: a Wall Street l’indice S&P Energy ha perso oltre il 50% in un mese, dopo che il settore già nel 2019 era stato la Cenerentola del listino. Oggi, per la prima volta nella storia, è il comparto a minor capitalizzazione di borsa negli Usa. Ma sono soprattutto i bond a preoccupare.
Con il petrolio a 20 dollari al barile e il gas ai minimi storici quasi ovunque nel mondo, 128 miliardi di dollari di obbligazioni di compagnie petrolifere Usa oggi trattano a livelli distressed, ovvero con rendimenti così elevati da superare di almeno il 10% quelli dei Treasuries.
La situazione sta diventando esplosiva anche in altri settori di attività. Le emissioni più speculative, le high yield, sono ormai tutte distressed: in due settimane lo spread è raddoppiato, raggiungendo – in media – 1.013 punti base. Per l’Energy lo spread è oltre 2.200 punti base. Tra bond e prestiti a leva rischiano il default debiti per 533 miliardi di dollari.
Persino le società considerate più solide dalle agenzie di rating, quelle che si fregiano della qualifica di investment grade, hanno visto i rendimenti salire a livelli che non toccavano dal 2009. «Se gli dei volevano creare la tempesta perfetta per il mercato dei corporate bonds, ebbene ci sono riusciti», afferma Jeffrey Gundlach, chief investment officer di SoubleLine Capital, che prevede una raffica «veloce e furiosa» di downgrading.
L’allarme è particolarmente forte tra le compagnie petrolifere, soprattutto quelle dello shale oil, che sono già tutte a livello «spazzatura», ossia con un rating inferiore a BBB o equivalente. I frackers hanno restituito agli Stati Uniti il primato mondiale come fornitori di greggio, con una produzione che tuttora supera 13 milioni di barili al giorno. Ma come categoria non sono mai stati capaci di generare flussi di cassa positivi, nemmeno quando il barile costava più di 100 dollari, il quintuplo rispetto ai valori attuali. Anni di denaro facile hanno fatto accumulare al settore dello shale oil 175 miliardi di dollari di debiti spazzatura, per cui molti operatori ormai faticano anche solo a pagare gli interessi.
Le pianure del Texas oggi sono piene di zombie che camminano. E che rischiano di infettare ampi settori dell’economia, già debilitati dal coronavirus. Molti fornitori probabilmente hanno smesso di essere pagati, i licenziamenti si contano già a migliaia, annunciati sia dalle compagnie che dalle società di servizi petroliferi: solo Halliburton ha mandato a casa 3.500 dipendenti questa settimana. A Houston, scrive il Wall Street Journal, sta già entrando in crisi il settore immobiliare.
I problemi ovviamente riguardano anche le banche, che all’Oil & Gas (shale oil e compagnie tradizionali) hanno concesso prestiti per 300 miliardi di dollari. Il settore è indebitato nel complesso per 1.900 miliardi, contando anche l’investment grade.
I crediti deteriorati – concentrati soprattutto nello shale oil e nei servizi petroliferi – per ora non minacciano i big del credito Usa, che hanno un’esposizione ridotta (inferiore al 15% per JpMorgan Chase, Citigroup, Wells Fargo e Bank of America). Ma oltre Oceano ci sono diverse banche regionali medio-piccole che quest’anno rischiano di veder spazzati via completamente i loro profitti , avverte uno studio di Keefe Bruyette & Woods. Undici istituti, secondo la banca d’investimento, hanno concesso crediti al settore Oil& Gas per un valore pari ad almeno un quarto della loro capitalizzazione. Tra i più a rischio ci sono BOK Financial e Bank 7 Corp, banche dell’Oklahoma, e le texane Cullen/Frost Bankers, Cadence Bancorp e Crossfirst Bancshares.
L’energia ha un peso limitato sugli indici high yield: il 10% circa, una quota dimezzata rispetto al 2014. Ma il rischio di contagio è alto, non solo per l’alto numero di società vicine all’insolvenza ma anche per il gran numero di obbligazioni in scadenza nei prossimi 5 anni. «A nostro giudizio – avverte Oxford Economics – il rischio che l’energia e i settori collegati possano tirar giù tutto il mercato high yield e quello dei leveraged loans non dovrebbe essere sottovalutato».
L’amministrazione Usa sta cercando in ogni modo di salvare il settore petrolifero: addirittura sono allo studio tagli di produzione in stile Opec. Ma il fatto che la Federal Reserve abbia azzerato i tassi di interesse non aiuta, mette in guardia Ray Dalio, di Bridgewater: «L’aumento degli spread farà salire la spesa per interessi a carico delle società a basso rating, proprio nel periodo in cui l’offerta di credito si riduce. Questo intensificherà la stretta creditizia, le pressioni deflazionistiche e le forze recessive».
Fonte di grande preoccupazione sono anche i potenziali fallen angels, gli angeli caduti, società a un soffio dal perdere la qualifica di investment grade: un taglio, anche minimo, del rating fa sprofondare le loro obbligazioni nella categoria high yield, costringendo molti investitori ad espellerle dal portafoglio. Un primo angelo è già caduto, questa settimana: Occidental, schiacciata da 39 miliardi di dollari di debiti accumulati nella scalata ad Anadarko, è stata declassata a Ba1 da Moody’s. Molte altre compagnie rischiano di fare ben presto la stessa fine, con un pericoloso effetto a catena: più angeli cadono, più i costi di finanziamento per tutta la categoria junk salgono. Un problema che peraltro non toccherebbe solo le società dell’Oil & Gas e che aggraverebbe la grave crisi di liquidità, che le banche centrali oggi si affannano a contrastare.
Le porte del mercato del credit sono già chiuse per molti. Nel settore petrolifero solo le compagnie più solide riescono ancora a finanziarsi: questa settimana ExxonMobil ha collocato un bond da 8,6 miliardi. Ma dei frackers non si fida più nessuno.
La situazione oggi è ben diversa rispetto alla crisi del 2014-2016. Anche allora il petrolio crollava, ma in soccorso dello shale oil erano arrivate folle di investitori di ogni tipo, compresi i piccoli risparmiatori che in passato acquistavano con entusiasmo nuove azioni e obbligazioni spazzatura, che proprio per l’alto rischio offrivano rendimenti generosi. Alcune società di shale sono risorte grazie al Chapter 11, che le ha liberate dallo stato di insolvenza, altre sono state acquistate da grandi compagnie o da fondi di private equity (spesso ex creditori).
Oggi nessuno scuce più un soldo. Persino due colossi del private equity, Apollo ed Elliott Management, si sono ritirati all’ultimo minuto dall’operazione di salvataggio che avrebbe consentito a EP Energy di uscire dalla bancarotta. Difficoltà analoghe sta incontrando Alta Mesa Resources, che vorrebbe cedere asset ma non trova compratori. Intanto Chesapeake, uno dei pionieri dello shale, starebbe cercando – finora con scarso successo, secondo voci di stampa – di ristrutturare debiti per 9 miliardi di dollari. La società ha perso due terzi del valore di Borsa quest’anno e i suoi bond hanno un rendimento teorico oltre il 90%.