La privacy ai tempi del coronavirus
In Corea del Sud il tracciamento delle persone è stato cruciale per contenere l’epidemia Se ne parla anche in Europa, ma l’applicazione va coniugata con le tutele. Il dibattito è aperto
Idati possono davvero aiutarci a combattere il coronavirus? È una domanda molto dibattuta in questi giorni. Esistono esempi concreti che vanno in questa direzione, ma anche molti dubbi sulla efficacia di questa mossa nel lungo periodo, e sulle eventuali ricadute in termini di privacy. Di certo il contact tracing, tecnologia usata con successo in Cina, Corea del Sud, Israele, Taiwan e Singapore ha mostrato i suoi muscoli. Ha dato prova di poter essere un alleato preziosissimo nelle fasi più calde di un picco epidemiologico. E forse ha messo in evidenza tutti i limiti di un’Europa ancora troppo frammentata, digitalmente divisa e chiaramente non pronta ad affrontare una pandemia.
Tedros Adhamon Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha spiegato a più riprese che le sole misure di quarantena e lockdown potrebbero non bastare. E ha invitato gli Stati a sperimentare nuove strade: «Non abbiamo visto un incremento sufficientemente urgente dei tamponi, né dell’isolamento e del tracciamento dei contatti, che è la spina dorsale della risposta a Covid19», ha detto, spingendo con forza verso l’impiego dei Big Data.
L’esempio più eloquente di utilizzo dei dati nella lotta alla polmonite di Wuhan arriva dalla Corea del Sud. Ed è un esempio strettamente legato all’Italia, perché proprio la Corea del Sud – nei giorni di fine febbraio – mostrava una curva epidemiologica molto simile alla nostra. Poi qualcosa è cambiato: i contagi in Italia sono cresciuti ogni giorno, moltiplicandosi. A Seul, invece, la curva si è stabilizzata. Merito della strategia adottata dal governo, molto diversa dalla quarantena assoluta imposta da Xi Jinping in Cina.
Ma merito, soprattutto, dell’esperienza. Nel 2015, quando la Corea del Sud si trovò ad affrontare i contagi da Mers, venne introdotta una legge che consente alle autorità coreane di accedere con facilità a tutta una serie di dati: «Tra le informazioni disponibili – racconta Massimo Canducci, Cio di Engineering - ci sono anche le immagini delle telecamere di sicurezza, le transazioni delle carte di credito, i dati di posizionamento rilevati da smartphone e automobili». Tutte queste informazioni «sono state rilevate, incrociate ed elaborate riuscendo a ridurre drasticamente le dimensioni del grafo di contagio».
L’altro lato della medaglia è costituito dal fatto che «talvolta si è fatto dei dati un utilizzo un po’ troppo disinvolto, comunicando alla popolazione informazioni anonimizzate che hanno comunque consentito di individuare alcuni cittadini potenziali portatori del virus oppure alcuni comportamenti che quegli stessi cittadini avrebbero preferito rimanessero nell’ombra». La Corea del Sud è oggi in grado di tenere traccia e di aggiornare i suoi cittadini (in tempo reale) circa i nuovi contagi. E ognuno, dal proprio smartphone, può verificare ciò che sta succedendo.
Uno dei primi sostenitori, in Italia, del contact tracing è Alfonso Fuggetta, professore al Politecnico di Milano: «Sostanzialmente si tratta di utilizzare le informazioni relative agli spostamenti dei cittadini per dedurre se un singolo è stato esposto o si è trovato a contatto con soggetti che si sono rivelati essere infetti. In questo modo, nel caso si sia in presenza di un potenziale contagio, è possibile allertarlo e chiedergli di autoisolarsi. Questo è solo uno dei possibili scenari. In generale, si tratta di incrociare i dati relativi agli spostamenti delle persone e quelli relativi alle dinamiche epidemiologiche per limitare e controllare l'epidemia».
Sulla replicabilità di questo sistema anche in Italia, Fuggetta non ha dubbi: «È certamente replicabile anche da noi. Ovviamente – continua vanno considerati e tarati due aspetti importanti: il primo è l’integrazione tra i sistemi mobili e le basi di dati e i sistemi informativi delle nostre istituzioni sanitarie; in secondo luogo, bisogna tarare con attenzione gli algoritmi e le euristiche che valutano la prossimità e conseguentemente il livello di esposizione al rischio». E poi c’è tutto il discorso sull’impatto che un sistema del genere potrebbe avere sulla privacy: «Tutto questo – aggiunge Fuggetta - può e deve essere fatto nel pieno rispetto della privacy, di fatto e de jure. Peraltro, come sostengono diversi giuristi, il Gdpr prevede che con adeguati controlli e precauzioni, in circostanze come quelle che viviamo, questo tipo di soluzioni sia fattibile. Ovviamente soluzioni di questo tipo vanno realizzate con grandissima attenzione e poi continuamente tarate e adattate in funzione delle esperienze raccolte sul campo. E soprattutto, vanno fatte velocemente: il virus ha tempi suoi e non segue certo i nostri».
Proprio in questo senso si è espresso anche il Garante della Privacy, Antonello Soro: «Non esistono preclusioni assolute nei confronti di determinate misure in quanto tali» ha detto, ma «vanno studiate molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologica solo perché apparentemente più comoda, ma valutando attentamente benefici attesi e ”costi”, anche in termini di sacrifici imposti alle nostre libertà». Soro, però, è molto cauto: «Mi sfugge l’utilità di una sorveglianza generalizzata alla quale non dovesse conseguire sia una gestione efficiente e trasparente di una mole così estesa di dati, sia un conseguente test diagnostico altrettanto generalizzato e sincronizzato».
Intanto, mentre dal governo iniziano a prendere in grande considerazione l’idea di utilizzare i Big Data per contenere il contagio, le Big Tech sono state già allertate. Oltre alle compagnie telefoniche, un grosso aiuto per il tracciamento dei dati può arrivare da colossi come Facebook e Google. I prossimi giorni saranno decisivi. Per lo sviluppo del contact tracing, ma anche per l'’Italia.
I dati sugli spostamenti possono essere di grande utilità