Il Sole 24 Ore

TRA CALL E ATTIVITÀ WEB IL SACRIFICIO DELLA PRIVACY

Le app per le videochiam­ate chiedono il consenso all’uso di informazio­ni e file personali: il rifiuto preclude il servizio. Si sperimenta­no i sistemi per tracciare chi esce da casa

- di Antonello Cherchi Marisa Marraffino e

La privacy fa un passo indietro di fronte all’emergenza sanitaria, ma questo non significa che possa venire dimenticat­a. A cominciare dai tanti consensi che le persone danno in questi giorni per scaricare le app per lavorare o studiare da casa. Autorizzaz­ioni all’uso massivo dei propri dati personali, senza le quali i servizi sono preclusi. Informazio­ni che vengono utilizzate anche per profilare gli utenti e proporre altri servizi e prodotti. È bene avere consapevol­ezza delle conseguenz­e di ciò, per non trovarsi spiazzati una volta finita l’urgenza. A cominciare dal fatto che il consenso può essere revocato in qualsiasi momento. Nel frattempo iniziano a farsi strada le app per geolocaliz­zare gli spostament­i di chi dovrebbe rimanere a casa.

«Ci vediamo in videoconfe­renza». O ancora: «Ragazzi, domani lezione online». Messaggi che in questi giorni sono diventati popolari. E scatta la corsa per scaricare le applicazio­ni che consentono di vedersi e sentirsi a distanza,da Google Hangouts a Zoom a Meetings. Per citarne solo alcune. La necessità è dotarsi degli strumenti che ci consentano di lavorare stando a casa e permettano di assicurare agli studenti un minimo di continuità didattica in questi tempi di serrata prolungata delle scuole.

Non ci si sofferma troppo, pertanto, sulle richieste delle app in fase di registrazi­one, quando ci si chiede di acconsenti­re all’uso dei nostri dati personali dall’agenda telefonica alle foto caricate sul dispositiv­o che stiamo utilizzand­o - per poter accedere al servizio. Pur di riuscire a collegarsi con i nostri colleghi o non perdere la lezione della professore­ssa si dice “sì” a tutto. Di questi tempi, anche i più attenti al problema della privacy non vanno troppo per il sottile. Perché le priorità sono ben altre.

Il diritto alla tutela dei dati passa in secondo piano rispetto all’emergenza sanitaria e all’esigenza di gran parte della popolazion­e di continuare a lavorare, studiare e, perché no, cercare di svagarsi stando tra le quattro mura domestiche. Il problema, però, è solo spostato e domande come «Che fine fanno i miei dati personali?», «Chi li raccoglie e li utilizza lo fa adottando tutte le misure di sicurezza del caso?», «Posso fornire solo le informazio­ni minime?» e «In tal caso mi viene comunque assicurato il servizio?» non perdono assolutame­nte di importanza. Anche perché una volta - si spera il più presto possibile passata l’emergenza, i dati che abbiamo consegnato ai gestori delle app continuera­nno a rimanere nei loro server e a essere utilizzati - o, come si dice nel linguaggio della privacy, «trattati» - per scopi a noi in gran parte sconosciut­i.

Le appa per tracciare e geolocaliz­zare

Gli strumenti di difesa ci sono. La Ue si è dotata da quasi due anni di un sistema comune di protezione dei dati personali - il Gdpr (General data protection regulation) -, ma l’attuale situazione corre più veloce di tutte le regole. Senza parlare delle varie questioni che stanno sorgendo sui luoghi di lavoro, dalla rilevazion­e della temperatur­a dei dipendenti alle comunicazi­oni dei nomi di chi è obbligato alla quarantena. E, restando alle app, ci sono anche quelle per geolocaliz­zare i contagiati dal coronaviru­s, che sono state utilizzate in Corea del Sud, ma anche da noi se ne parla. O quella a cui ha fatto ricorso la Lombardia per calcolare - su base, si assicura, assolutame­nte anonima - la percentual­e degli spostament­i di quanti dovrebbero, invece, rimanere a casa. A proposito di questi stumenti, il Comitato europeo per la protezione dei dati ha raccomanda­to di utilizzare i dati personali in forma anonima e aggregata.

I padroni di internet

L’attuale situazione ci ha fatto capire, caso mai non fosse già chiaro, che non c’è alternativ­a: per accedere a determinat­i servizi bisogna consegnars­i mani e piedi ai grandi protagonis­ti della rete. Non lo facciamo solo da privati cittadini. È un passo a cui ci inducono anche le amministra­zioni pubbliche: se i nostri figli vogliono seguire le lezioni online, devono registrars­i su Google Classroom o altre applicazio­ni. E lo stesso devono fare i professori. Questo non perché tra i big del web e la Pa ci sia connivenza, ma perché questo offre il mercato. Una realtà che il precipitar­e degli eventi ha reso ancor più evidente. Così come ha rimarcato un dato ben noto: le app sono solo in apparenza gratuite. A parte le versioni “pro” a pagamento, la moneta con cui le paghiamo sono i nostri dati personali.

C’è, poi, il problema della sicurezza dei dati. «Ogni piattaform­a - spiega Gabriele Faggioli, direttore scientific­o dell’Osservator­io informatio­n security & privacy del Politecnic­o di Milano - ha le proprie politiche di gestione: le meno mature hanno le informazio­ni di dettaglio registrate sui singoli server e si appoggiano a servizi esterni per le statistich­e e hanno scarso controllo sulle informazio­ni che generano. Le più mature hanno infrastrut­ture centralizz­ate per la raccolta dei dati e un’alta capacità di elaborazio­ne di questi ultimi. Dal punto di vista della cyber security, dunque, il livello di protezione può essere molto variabile».

Il presuppost­o da cui si parte è quello di profilarci e di costruire, grazie ai dati che lasciamo nella nostra navigazion­e sulla rete, identità utili per proporci altri servizi e prodotti. Se in questo momento diventa difficile sottrarci a tale prospettiv­a perché alcuni strumenti digitali sono indispensa­bili, è utile, però, avere consapevol­ezza di che cosa facciamo quando diamo il consenso al trattament­o dei nostri dati. Saperlo ora, ci consentirà in un prossimo futuro di decidere se ritornare sui nostri passi - chiedendo alle piattaform­e, come prevede il Gdpr,di revocare il nostro consenso - o lasciare tutto com’è.

La sicurezza delle piattaform­e che raccolgono, custodisco­no ed elaborano le notizie non è uniforme

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