Negozi non food, oltre 200mila posti a rischio
Dopo tre settimane di stop e nessuna prospettiva di riapertura a breve
«Se ne parla poco ma le aziende che vendono prodotti non alimentari come abbigliamento, fai-da-te, mobili e complementi d’arredo, profumi e cosmetica, articoli sportivi stanno vivendo un dramma assoluto di cui si parla poco - premette Claudio Gradara, presidente di Federdistribuzione -. I negozi del non food sono chiusi da tre settimane e ragionevolmente non credo che i tempi per la riapertura saranno a breve termine. E certamente non si ripartirà da dove eravamo».
È il lato oscuro del blocco delle attività commerciali non food, ovvero non legate ai beni alimentari ed essenziali. Si tratta di decine di migliaia di punti vendita, poco più di 30mila quelli degli associati a Federdistribuzione, con centinaia di migliaia di addetti. «Il decreto cura Italia non ha considerato la crisi di questo settore, una decisione che ha lasciato senza parole le imprese - continua Gradara -. Quella del Governo ci sembra una scelta incomprensibile». Da qui la richiesta di essere inseriti per potere accedere alle tutele previste, in primo luogo al rinvio delle scadenze fiscali e contributive. Una via che permetterà alle aziende di conservare un minimo di liquidità. «Saranno inoltre necessari altri provvedimenti per alleggerire i costi come la sospensione di alcuni tributi locali, una scontistica sull’Imu e l’abbattimento dei canoni per i negozi che dovranno essere rinegoziati quanto meno per la durata dell’emergenza oltre al supporto delle banche con garanzie statali a garanzia del credito erogato».
Sul fronte caldo degli affitti degli spazi commerciali Mario Resca, presidente Confimprese, è tranchant. «I nostri associati non pagheranno gli affitti perché dopo un mese senza incassi non hanno i fondi - dice Resca -. Nei centri commerciali si usa la formula dell’affitto del ramo d’azienda che non ha i benefici del credito d’imposta del 60%». Il presidente di Confimprese ricorda la situazione delle aziende non food. «Arrivano da due anni di stagnazione, hanno i magazzini pieni con le collezioni primaveraestate, pagano gli stipendi e i costi fissi come l’affitto che nell’abbigliamento e la ristorazione è il costo più alto».
Da parte sua Augusto Bandera, segretario generale Assofranchising aggiunge: «Le nostre richieste al Governo mirano a tutelare oltre 200mila lavoratori a rischio nel franchising, settore che vale 25 miliardi di euro, l’1,3% del Pil - sottolinea -. Se non si agisce subito, il mercato rischia di sprofondare in una lunga recessione che metterà in pericolo anche un settore in salute come è sempre stato il franchising fino ad ora. Oltre alle misure messe in campo dai franchisor chiediamo che vengano bloccati immediatamente i pagamenti Iva, dei contributi, Imu, canoni di locazione e che ci siano finanziamenti agevolati per gli affiliati e chiediamo anche garanzie per una significativa proroga di queste misure nel tempo».
Stefano Pochetti, presidente Gruppo Cisalfa attivo con i brand Cisalfa e Intersport Italia, con ricavi per 545 milioni e oltre 3mila dipendenti illustra le prospettive per un gruppo di medie dimensioni. «Se il cura Italia non viene significativamente variato e intergrato in sede di conversione realtà nazionali come Cisalfa sono condannate a un inevitabile declino e le meno floride al dissesto - avverte Pochetti -. A marzo e aprile i ricavi sono azzerati e molto probabilmente a maggio, con la prospettiva – nella migliore delle ipotesi - di drastici ridimensionamenti nei successivi mesi di giugno, luglio e agosto». La merce della stagione primavera-estate è in magazzino e non è restituibile ai fornitori. «Soltanto difficili accordi con i fornitori possono consentire di diluire parzialmente nei prossimi mesi i pagamenti - aggiunge il presidente che sul fronte caldo degli affitti aggiunge -. È necessario che il credito d’imposta sia pari al 100% del costo delle locazioni e degli affitti di rami di azienda relativi a strutture di vendita al dettaglio per l’intero periodo di durata dell’obbligo di sospensione dell’attività».
Il Cura Italia non ha considerato le attività del non food, oggi in ginocchio e prive di tutele