Filiera della carne in affanno, crolla la produzione dei suini
Lo stop di bar e ristoranti fa venir meno un quinto del giro d’affari del settore Per il virus i macelli lavorano a scartamento ridotto. Prezzi in calo
Soffre il comparto delle carni, nell’agroalimentare è tra i settori che stanno accusando maggiormente un calo delle vendite. È scritto nero su bianco nel report che l’Ismea ha realizzato all’indomani delle misure restrittive adottate dal governo in risposta all’epidemia. E lo dicono a gran voce anche le associazioni di settore, sia dal lato degli allevatori sia da quello dell’industria della trasformazione.
La colpa? Una buona parte va attribuita allo stop totale delle vendite ai bar e ai ristoranti, così come al crollo dell’export. Il comparto bovino, per esempio, non riesce a soddisfare la domanda dei consumi domestici pur avendo un’eccedenza di tagli destinati all’Horeca e alle esportazioni. Ma riconvertirsi rapidamente al canale di vendita della grande distribuzione non è immediato: chi prima non c’era, nei banchi dei supermercati, non ci può certo arrivare da un giorno all’altro. Occorre tempo, per trovare accordi e firmare contratti. E intanto la merce rimane invenduta.
Il rallentamento dei macelli
Il comparto delle carni deve fare anche i conti con la riduzione di manodopera nei macelli perché i lavoratori vengono colpiti dall’epidemia. Non dimentichiamoci che in Italia la maggior parte degli impianti di lavorazione, così come degli allevamenti, si trova tra la bassa Lombardia e l’Emilia Romagna, vale a dire due delle aree più colpite dal coronavirus. Questo, sommato ai nuovi protocolli sanitari obbligatori nelle stalle e nei macelli, ha portato a una riduzione del volume dell’attività che, per quanto riguarda il comparto dei suini, Confagricoltura stima intorno al 20%. Significa qualcosa come 25mila maiali macellati in meno ogni settimana.
Con la capacità di lavorazione che cala, i macelli sono costretti ad acquistare meno capi. Così, di fronte a un’offerta di animali che resta alta, quelle che calano sono inevitabilmente anche le quotazioni: rispetto a dicembre, sostiene Confagricoltura, i prezzi dei suini sono scesi del 20%. E questo innesca una spirale tutt’altro che virtuosa: gli animali finiscono col restare più a lungo nelle stalle e molte partite destinate al circuito Dop vanno “fuori peso”, subendo così un ulteriore deprezzamento.
Gli aumenti dei mangimi
Come se non bastasse, le spese invece aumentano: «I costi dell’alimentazione animale sono in decisa crescita, nell’ordine del 5%», racconta Giovanna Parmigiani, imprenditrice suinicola del Piacentino - una delle aree più colpite dal coronavirus - e anche membro della giunta nazionale di Confagricoltura. «L’innalzamento dei prezzi delle materie prime per i mangimi, soia e cruscami su tutto prosegue l’imprenditrice - è provocato dai ritardi nell’attracco delle navi in arrivo e dalle difficoltà nei trasporti soprattutto dall’Est Europa. Se andiamo avanti così, già dalla prossima settimana i ricavi non copriranno più i costi di produzione».
Il fronte dell’industria
Fin qui gli allevatori. Ma anche le imprese della trasformazione della carne, e i produttori di salumi in primo luogo, sono in sofferenza. «Bar, mense e ristoranti rappresentano il 20% delle nostre vendite», calcola il direttore generale di Assica, Davide Calderone. Significa che il lockdown imposto dal coronavirus ha cancellato con un colpo di spugna un quinto di tutto il fatturato delle aziende del settore. Una fetta d’affari, questa, che non potrà in nessun modo essere compensata dall’aumento degli acquisti e dei consumi casalinghi: «Nessuno a casa propria mangia a pranzo così tanti panini come fa quando è fuori per lavoro, né fa aperitivi - taglia corto il dg - e poi, anche nella grande distribuzione non tutto è in crescita: gli acquisti di affettati in busta aumentano, è vero, ma ai banconi del fresco si registra un calo drastico dei clienti». Per conto dei propri associati, l’Assica ha già lanciato l’allarme
nei palazzi della politica. Ma al momento nessun tavolo del comparto risulta aperto.
Le risposte all’emergenza
Ieri un primo Sos è stato raccolto dalla filiera italiana del mais destinato all’alimentazione animale: Assalzoo (che rappresenta l’industria mangimistica italiana), Assosementi, Origin Italia (che raccoglie i Consorzi delle Indicazioni geografiche) e le principali associazioni agricole italiane hanno firmato un accordo quadro per favorire la ripresa della coltivazione del mais nel nostro Paese. Negli ultimi anni la produzione interna di granturco ha infatti registrato un pericoloso crollo delle superfici seminate di oltre il 50%, con una produzione che ha raggiunto un minimo storico. L’intento dell’accordo è quello di favorire il ripristino di un’adeguata capacità di approvvigionamento interno e di arginare, nel contempo, la forte dipendenza dall’estero che, nel solo 2019, ha portato il livello delle importazioni a raggiungere un picco storico di 6,4 milioni di tonnellate. Un segnale importante, ma è chiaro
che gli effetti non si potranno certo sentire nell’immediato.
Eppoi non basta: Confagricoltura chiede un “patto di filiera”, che includa allevatori, industria e grande distribuzione, per superare le attuali difficoltà e garantire al Paese tutti i prodotti alimentari di cui ha bisogno. Servono misure che riportino le macellazioni a ritmi pressoché ordinari, così come occorre - sostiene Confagricoltura - che le industrie della trasformazione prediligano il prodotto nazionale rispetto a quello estero, e che la Gdo metta a banco anche nuove referenze.
Anche le Regioni si stanno muovendo per supportare il comparto delle carni. Ieri per esempio la giunta regionale campana, riunita in videoconferenza, con una delibera ha dichiarato lo stato di crisi per le imprese zootecniche danneggiate dalla perdurante fase emergenziale conseguente al contenimento del Covid19. È stato contestualmente chiesto al ministro dell’Agricoltura di porre in essere ogni iniziativa utile per l’attivazione delle risorse previste dal fondo di Solidarietà nazionale.