EVITARE LE SCALATE STRANIERE
Il crollo dei valori di Borsa, determinato dalla recessione indotta dal Covid-19, può regalare a soggetti esteri ricchi di liquidità l’opportunità di conquistare le migliori società italiane senza un forte azionariato di controllo. Maggioranza e opposizione intendono scongiurare un tale rischio. Accantonano, insomma, la linea secondo la quale non contano la qualità e la nazionalità degli azionisti di controllo perché, alla fine, il mercato selezionerà gli investitori migliori. Basterà che le authority assicurino la correttezza della contesa per i diritti di proprietà. È una linea che venne seguita, ancora nel 2013, dal governo Letta, quando la spagnola Telefonica cercò di conquistare il controllo di fatto di Telecom Italia, mentre Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca si defilavano. Oggi quella linea (peraltro corretta dai governi successivi proprio su Telecom con scelte peraltro poco coerenti come furono il lancio di Open Fiber e l’ingresso diretto in Telecom Italia) viene percepita come non più attuale. In questa emergenza, la classe politica non si chiede se, ma come lo Stato debba intervenire nell’economia.
Nel quadro del nuovo interventismo, ben delineato sul piano macroeconomico dall’articolo di Mario Draghi sul Financial Times, un punto critico è la gestione ordinata degli assetti azionari di controllo delle grandi imprese, avendo presente l’interesse dei soci, degli stakeholder e del Paese in generale. Gestione, si badi bene, non cristallizzazione. Ma chi e come la può realizzare?
Anzitutto, vanno tenuti presente due vincoli. Il primo è il tempo.
L’esposizione al rischio di operazioni ostili e/o a un indebolimento strategico delle grandi imprese a beneficio dei concorrenti globali non si esaurirà al primo rimbalzo delle quotazioni: durerà anni. Dunque, servono misure che assicurino nel lungo periodo sia la stabilità degli assetti in funzione dei piani di sviluppo delle grandi imprese (che trainano gran parte delle medie e delle piccole) sia in funzione dell’accesso al capitale di rischio necessario.
Il secondo vincolo è costituito dalla storica debolezza del sistema finanziario italiano. Questa fragilità a suo tempo venne affrontata con le piramidi societarie, favorite sul piano fiscale dall’allora ministro delle Finanze, Bruno Visentini, con le partecipazioni statali e con il reticolo delle società attorno a Mediobanca. Quelle soluzioni all’italiana avrebbero dovuto cedere il passo alle nuove banche universali rese possibili dal Testo unico bancario del 1993. Ma così non è avvenuto. Anzi, i limiti del sistema finanziario nazionale sono stati accentuati negli ultimi 10-15 anni dalle regole di Vigilanza di derivazione europea, che impongono alle banche requisiti patrimoniali pressoché irraggiungibili ove intendano acquisire partecipazioni non finanziarie. E saranno ancor più aggravati nel prossimo futuro dalle perdite derivanti dalla recessione post Covid-19.
Nel momento in cui la stessa Germania sdogana l’idea di nazionalizzare quel che serve e rifinanzia in grande stile la KfW (l’Istituto di credito per la ricostruzione nato nel 1948 all’interno del Piano Marshall, ndr), dobbiamo chiederci se possa bastare all’Italia il Golden power, di cui il governo