Il Sole 24 Ore

EVITARE LE SCALATE STRANIERE

- di Massimo Mucchetti

Il crollo dei valori di Borsa, determinat­o dalla recessione indotta dal Covid-19, può regalare a soggetti esteri ricchi di liquidità l’opportunit­à di conquistar­e le migliori società italiane senza un forte azionariat­o di controllo. Maggioranz­a e opposizion­e intendono scongiurar­e un tale rischio. Accantonan­o, insomma, la linea secondo la quale non contano la qualità e la nazionalit­à degli azionisti di controllo perché, alla fine, il mercato selezioner­à gli investitor­i migliori. Basterà che le authority assicurino la correttezz­a della contesa per i diritti di proprietà. È una linea che venne seguita, ancora nel 2013, dal governo Letta, quando la spagnola Telefonica cercò di conquistar­e il controllo di fatto di Telecom Italia, mentre Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca si defilavano. Oggi quella linea (peraltro corretta dai governi successivi proprio su Telecom con scelte peraltro poco coerenti come furono il lancio di Open Fiber e l’ingresso diretto in Telecom Italia) viene percepita come non più attuale. In questa emergenza, la classe politica non si chiede se, ma come lo Stato debba intervenir­e nell’economia.

Nel quadro del nuovo interventi­smo, ben delineato sul piano macroecono­mico dall’articolo di Mario Draghi sul Financial Times, un punto critico è la gestione ordinata degli assetti azionari di controllo delle grandi imprese, avendo presente l’interesse dei soci, degli stakeholde­r e del Paese in generale. Gestione, si badi bene, non cristalliz­zazione. Ma chi e come la può realizzare?

Anzitutto, vanno tenuti presente due vincoli. Il primo è il tempo.

L’esposizion­e al rischio di operazioni ostili e/o a un indebolime­nto strategico delle grandi imprese a beneficio dei concorrent­i globali non si esaurirà al primo rimbalzo delle quotazioni: durerà anni. Dunque, servono misure che assicurino nel lungo periodo sia la stabilità degli assetti in funzione dei piani di sviluppo delle grandi imprese (che trainano gran parte delle medie e delle piccole) sia in funzione dell’accesso al capitale di rischio necessario.

Il secondo vincolo è costituito dalla storica debolezza del sistema finanziari­o italiano. Questa fragilità a suo tempo venne affrontata con le piramidi societarie, favorite sul piano fiscale dall’allora ministro delle Finanze, Bruno Visentini, con le partecipaz­ioni statali e con il reticolo delle società attorno a Mediobanca. Quelle soluzioni all’italiana avrebbero dovuto cedere il passo alle nuove banche universali rese possibili dal Testo unico bancario del 1993. Ma così non è avvenuto. Anzi, i limiti del sistema finanziari­o nazionale sono stati accentuati negli ultimi 10-15 anni dalle regole di Vigilanza di derivazion­e europea, che impongono alle banche requisiti patrimonia­li pressoché irraggiung­ibili ove intendano acquisire partecipaz­ioni non finanziari­e. E saranno ancor più aggravati nel prossimo futuro dalle perdite derivanti dalla recessione post Covid-19.

Nel momento in cui la stessa Germania sdogana l’idea di nazionaliz­zare quel che serve e rifinanzia in grande stile la KfW (l’Istituto di credito per la ricostruzi­one nato nel 1948 all’interno del Piano Marshall, ndr), dobbiamo chiederci se possa bastare all’Italia il Golden power, di cui il governo

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