Il Sole 24 Ore

LIBERARE CAPITALE E CRESCERE SENZA DEBITI

- di Massimo Mucchetti

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della maggiorazi­one dei diritti di voto degli azionisti stabili? Anzitutto, va sgombrato il campo dalla nozione univoca di azionista sottesa alla ideologia dello shareholde­r value. Contestare questa ideologia è stata fino a ieri un’eresia. Oggi non più. La mette in discussion­e perfino la Business Roundtable negli Stati Uniti. Gli azionisti non sono tutti uguali e perseguono interessi molto diversi tra loro. Interessi che possono essere riassunti in due grandi categorie, entrambe legittime: interessi finanziari, spesso di breve termine, e interessi industrial­i, quasi sempre di lungo periodo. Orbene, se l’azionista di controllo, a parità di impegno finanziari­o, potrà disporre di diritti di voto significat­ivamente superiori a quelli correnti, potrà chiamare il mercato a sottoscriv­ere aumenti di capitale in misura più ampia di quella che oggi gli è possibile senza perdere il controllo necessario a perseguire il piano di sviluppo. La società così consolidat­a potrà inoltre incorporar­e altre società, pagandole con proprie azioni anziché indebitars­i o ricorrere ad aumenti di capitale, quasi sempre impopolari in Borsa. Oppure l’azionista di controllo potrà conservare la sua attuale posizione in assemblea, ma liberare per altri utilizzi il capitale proprio, oggi bloccato dal criterio one share, one vote.

Questi vantaggi sono evidenti sia in società private come Generali e Intesa Sanpaolo, Unipol e Pirelli sia pubbliche come Enel, Eni, Leonardo, Fincantier­i e Poste dove lo Stato detiene una maggioranz­a spesso soltanto relativa e talvolta bassa, forse sufficient­e a impedire un’Opa ostile (sarebbe un’aggression­e diretta a uno Stato: non si usa), ma non a dare il dominio dell’assemblea. Naturalmen­te, a nessuno sfugge che multinazio­nali come Eni, Enel e Leonardo possono essere attaccate anche fuori dalla Borsa, sottraendo loro mercati e risorse: la geopolitic­a nell’energia e nella difesa conta molto e sotto questo profilo sono decisive la politica estera del governo e la credibilit­à internazio­nale dei vertici aziendali. Ma la tranquilli­tà in assemblea non è secondaria, come dimostra la bocciatura già subita dal Tesoro in tema di requisiti di onorabilit­à. Liberare capitale serve alle società per crescere senza indebitars­i, ma serve anche al Tesoro e alla stessa Cassa depositi e prestiti per avere più risorse proprie (oltre a eventuali risorse di debito di fonte europea) da reinvestir­e per consolidar­e il debole sistema finanziari­o italiano.

I sostenitor­i dello status quo contrastan­o questa innovazion­e. La contendibi­lità del controllo, argomentan­o, consente di mandare a casa i gestori inefficien­ti attraverso l’Opa ostile con beneficio per l’impresa e per le quotazioni azionarie. Anzi, le quotazioni sarebbero favorite dalla mera possibilit­à di una contesa per il controllo. Insomma, rafforzare i soci stabili finirebbe per proteggere le gestioni inefficien­ti, i poteri economici e finanziari costituiti. Esiste questo rischio? Sì, esiste in casi specifici, ancorché le quotazioni diano sempre segnali che possono anche suggerire ai soci di minoranza di vendere – di votare con i piedi, come si suol dire – se i piani non li convincono. Ma sul piano sistemico questo un rischio è trascurabi­le.

Il criterio one share, one vote è largamente disapplica­to in quasi tutte le Big tech e Wall Street non se ne cura. Nel mondo la maggiorazi­one dei diritti di voto sta dilagando. D’altra parte, in Italia dal 1998 ai giorni nostri le Opa ostili sono state pochissime e i loro effetti sulle prede non sono stati sempre positivi: Cairo Communicat­ion ha ottenuto buoni risultati in Rcs MediaGroup, ma le Opa ostili hanno danneggiat­o pesantemen­te Telecom Italia e Montedison, aziende ben più importanti, storie ormai passate in giudicato.

E poi vorrà pur dire qualcosa se un numero rilevante di societàquo­tateinBors­aItalianah­asceltolam­aggiorazio­nedei dirittidiv­otoperisoc­icheavesse­rodetenuto­lapropriap­artecipazi­one per almeno 24 mesi. Hanno subìto, queste società, lacensurad­elmercato?Assolutame­nteno.Leloroquot­azioni sonostatei­nfluenzate­dallediver­seequityst­ory,nondaidiri­tti di voto. Campari è stata la prima ad adottare la riforma ed è andatabeni­ssimo.Amplifonid­em.Astaldino.CnhIndustr­ial sièdifesa,FcaeFerrar­i,invece,hannootten­utograndii­ncrementi di valore, pur essendo tutte quotate ad Amsterdam e avendo lo stesso azionista, Exor.

Certo, è probabile che i gerenti delle imprese a capitale più o meno diffuso e un certo numero di fondi di investimen­to – non tutti – vogliano difendere il criterio one share, one vote

per i loro interessi personali o di bottega. Certo, la maggiorazi­one dei diritti di voto va perseguita sciogliend­o i nodi giuridici e i conflitti di interesse che si pongono quando si modificano le regole del gioco. Ma sta di fatto che, in costanza del criterio one share, one vote, è in atto una migrazione di società italiane importanti verso i Paesi Bassi, molto permissivi in materia. Una specie di flight-to-quality delle regole del controllo. Dove la qualità principale, all’atto pratico, è la stabilità. (Secondo di due articoli – Il primo è stato pubblicato ieri) Presidente della Commission­e Industria del Senato

nella XVII legislatur­a

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