La meccanica perde 900 milioni di ricavi al giorno
Da Anima le stime sullo stop Nocivelli: «Ripartire per evitare il disastro»
Centottanta milioni al giorno. Tra valvole, rubinetti, condizionatori e caldaie è la stima dei ricavi persi per l’area della meccanica varia, area quasi completamente esclusa dall’elenco dei codici Ateco per cui è ammessa la produzione ai tempi del Coronavirus. Dall’associazione di categoria Anima, che raggruppa aziende responsabili di 43 miliardi di euro di ricavi, arriva un prima stima immediata dell’impatto della chiusura, che risparmia in media solo un’azienda su dieci.
Nel periodo di lockdown, dal 23 marzo al 3 aprile, si sarebbe così concretizzato un mancato fatturato per 1,8 miliardi di euro, a cui si correla il rischio di veder scomparire 9mila posti di lavoro.
Con impatti ben più ampi allargando lo sguardo all’intero settore della meccanica italiana, dove il fatturato perso ovviamente lievita, salendo a 900 milioni di euro al giorno: un conto da nove miliardi di euro nel periodo di blocco, con 45mila persone che per effetto di questo shock potrebbero vedere compromessa nelle stime di Anima l’esistenza del posto di lavoro. Situazione che anche alla luce dell’emergenza non è più ritenuta sostenibile.
«L’annuncio di una chiusura certa fino al 13 aprile è una catastrofe spiega il presidente di Anima Marco Nocivelli - perché nel frattempo il mondo resta aperto e i nostri clienti esteri acquistano altrove. Questa non è solo una guerra contro il virus ma anche contro la desertificazione produttiva: dobbiamo difendere un asset strategico del nostro paese, cioè l’industria». Le due settimane di stop totale per Nocivelli hanno dato il tempo alle aziende di reperire strumenti di sicurezza e protezione, riorganizzare il lavoro, ponendo dunque le condizioni per un riavvio in condizioni di garanzia.
«La salute è al primo posto - spiega - ma visti i numeri è chiaro che dovremo convivere per qualche tempo con questa situazione. Aggiungo che riaprire una fabbrica non è come schiacciare un interruttore: serviranno almeno quindici giorni per andare a regime. Ecco perché auspico che la prossima settimana sia utilizzata per iniziare a capire come riavviare l’industria. Facciamo un passo, per difendere asset strategici del Paese».
Le stime di Anima vedono rischi concreti anche dal lato dell’occupazione, con un calo stimato in 900 posti di lavoro per ogni giorno di fermo attività. Stop che produce ricadute dirette sui ricavi, sulla capacità di autofinanziamento, più in generale sulla tenuta del mercato. «Io lavoro nel condizionamento - spiega Nocivelli dove la stagione si fa da aprile a luglio, con l’aiuto di moltissimi lavoratori interinali. Che naturalmente in queste condizioni non possono operare, anche per effetto della Cig complessiva. E nella mia condizione si trovano tantissime altre aziende. Che peraltro, al contrario di quanto previsto dal decreto, sono assolutamente strategiche. Perché nessuna produzione, per quanto vitale, può proseguire a lungo senza viti, tubi, raccordi o valvole. Tutti settori esclusi dal decreto. In qualche caso, è vero, si può chiedere una deroga al Prefetto. Ma se i fornitori poi sono fermi il risultato non cambia. In sintesi: se si continua così il Paese va incontro ad un disastro».
Sulla stessa linea l’intera area di Federmacchine, con il presidente della federazione Giuseppe Lesce a chiedere, in una lettera indirizzata al presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, di avviare senza ritardi una Fase2. Al termine della scadenza del 3 aprile definita dall’ultimo Dpcm - spiega Lesce - dobbiamo consentire alle aziende per le quali sussistano le condizioni, di qualsivoglia settore manifatturiero, di riprendere le attività produttive. L'unica imprescindibile e tassativa condizione è che sussistano sulle linee di produzione, negli uffici e in qualsiasi angolo delle aziende, garanzie di igiene e sicurezza che pongano il personale al riparo da ogni possibile contagio. Noi imprenditori - aggiunge - ci rendiamo ovviamente disponibili anche ad esaminare strumenti di controllo più stringenti ed innovativi, per la salvaguardia della salute dei nostri lavoratori.
La riapertura - spiega Lesce - potrà essere utile anche per consentire un progressivo adattamento generale di condizioni operative per un futuro di convivenza che durerà probabilmente ancora molti mesi. «Richiesta - spiega Lesce - che non nasce da una preoccupazione di “fare bilancio”, ma dalla ben più grave e vivissima preoccupazione che una pausa più lunga dell’attuale possa rappresentare per moltissime aziende una fermata definitiva».
Sulla stessa linea i produttori di materiale da fonderia riuniti in Assofond, che vedono i primi clienti dirottare altrove le proprie produzioni, tra Germania e Turchia. «L’errore più grave è quello di creare una contrapposizione tra il profitto e la salute spiega il presidente di Assofond Roberto Ariotti - e personalmente questo è qualcosa che mi ferisce: io lavoro a fianco delle persone, non da un luogo diverso. Nel nostro settore vi sono le massime condizioni di sicurezza possibili e credo che sia cruciale ripartire. Anche perché gli aiuti dello Stato prima o poi finiscono. E mi chiedo: se le aziende non lavorano, da dove arriveranno le risorse?».