È ORA DI LIBERARE LE ENERGIE DEI PRIVATI
Ha ripreso a circolare in questi giorni, in seguito alle gravi lesioni provocate dal Covid-19 nel nostro tessuto economico, l’idea di un ritorno allo “Stato banchiere e imprenditore”. Recentemente il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha auspicato che il decreto del governo per una iniezione di liquidità alle imprese sia il preludio di «una nuova Iri». E non mancano, nei partiti di maggioranza come in quelli dell’opposizione, quanti sono favorevoli sia alla costituzione di una grande banca statale su un modello analogo a quello delle banche d’interesse nazionale sorte durante la Grande crisi degli anni Trenta del Novecento, sia alla creazione di nuove imprese con una forte partecipazione statale, oltre a quelle già esistenti. Poiché ritengono che la “mano pubblica” debba assumere un ruolo strategico, di indirizzo e di programmazione, al fine di dar vita, dopo l’epilogo dell’attuale emergenza, a una nuova configurazione strutturale dell’economia italiana.
Naturalmente, sappiamo bene che un robusto intervento dello Stato risulta oggi essenziale nel mezzo di un violento tsunami pandemico che rischia di sprofondare il Paese anche in una devastante recessione. Va pertanto dato atto al governo d’essersi impegnato, come è avvenuto in altre nazioni europee, ad attuare un cospicuo piano finanziario di soccorsi per scongiurare il pericolo di un collasso economico e di una massiccia distruzione di posti di lavoro. D’altronde, in circostanze eccezionali, spetta innanzitutto ai poteri pubblici adottare le misure più congrue e idonee per salvaguardare il bene comune e la tenuta sociale della collettività.
Diverso è invece il discorso sul ruolo dello Stato per quanto riguarda le sfide che dovremo affrontare nel post-virus. Che in passato, dopo aver salvato il salvabile di gran parte del sistema bancario e industriale negli anni Trenta, l’interventismo pubblico abbia concorso successivamente, in seconda “coesistenza competitiva” con l’imprenditoria privata, pure alla straordinaria performance dell’economia italiana negli anni 5060, è un dato di fatto indiscutibile. Ma quell’epoca è finita trent’anni fa e, se alcune imprese appartenenti alle Partecipazioni statali erano riuscite a reggere, dagli anni 70 in poi, ai gravi contraccolpi della stagflazione, altre di quell’eterogenea conglomerata che era l’Iri
L’INTERVENTISMO PUBBLICO È STATO FONDAMENTALE, MA QUELL’EPOCA SI È CONCLUSA TRENT’ANNI FA
avevano accusato invece crescenti passività, dovute a causa anche a un carico di “oneri impropri” addebitati loro dai governi di turno. D’altro canto, le privatizzazioni avviate dal 1992-93 furono dovute all’esigenza di far cassa il più possibile per consentire all’Italia, gravata da un’ingente debito pubblico e da persistenti deficit di bilancio, di venir ammessa nell’Unione economica e monetaria europea.
Ciò premesso, e tenendo presente che la nostra è un’economia trainata dall’export e operante in un mercato globale segnato da continui progressi tecnologici, occorre chiedersi se lo Stato possa svolgere realmente quella sorta di missione demiurgica, di trasformazione dell’economia e di palingenesi sociale, che alcuni vorrebbero attribuirgli. È innegabile, beninteso, che un complesso di strumenti e incentivi pubblici potranno essere utili ed efficaci anche in avvenire per assecondare lo sviluppo di servizi e infrastrutture materiali e immateriali: purché non si traducano in sovvenzioni a pioggia o in operazioni di sottogoverno e lottizzazione politica.
Ma agli effetti di una crescita in forze e durevole della nostra economia, e quindi per una risalita del Pil, quel che conta è un sistema-Paese in cui gli operatori privati possano operare, senza venir paralizzati da un groviglio di pastoie burocratiche e di vetusti pregiudizi ideologici, in modo da implementare le innovazioni e gli investimenti, la progettualità e la formazione di capitale umano. Che sono altrettanti fattori decisivi per migliorare la qualità del lavoro, a crescere l’efficienza e la produttività, e rendere più competitivo il made in Italy. In tal modo sarà inoltre possibile creare le condizioni strutturali per ridurre, insieme ai divari territoriali, anche vistose disuguaglianze sia sociali sia intragenerazionali.
D’altronde le prerogative e le funzioni precipue dello Stato consistono, non già in una gestione e pianificazione dell’economia, dall’alto e ipercentralista, bensì in una valida regolazione dei rapporti fra pubblico e privato, all’insegna della certezza giuridica, che eviti tanto la perpetuazione di rendite di posizione e di privilegi corporativi quanto il sopravvento di tendenze monopolistiche. E ciò al fine, tanto più necessario per la ripresa dopo il Covid-19, di un processo di sviluppo equilibrato e inclusivo con un minor impatto ambientale possibile e quindi altrettanto responsabile che sostenibile.