Il Sole 24 Ore

I paletti della Consulta su demolizion­i e ricostruzi­oni

La Corte costituzio­nale interpreta in modo restrittiv­o la legge 380/19 La lettura rischia di ostacolare il rinnovamen­to del costruito

- Guglielmo Saporito

Rischia un grosso passo indietro l'attività edilizia e in particolar­e la ristruttur­azione ricostrutt­iva, che pur consentire­bbe una pronta ripresa dell'economia.

L'ostacolo viene da una sentenza della Corte costituzio­nale (24 aprile 2020 n. 70) la quale afferma che le ristruttur­azioni effettuate con demolizion­e e ricostruzi­one devono rispettare il volume, l'area di sedime e l'altezza preesisten­ti. Esaminando una norma della regione Puglia (59 / 2018) i giudici costituzio­nali ripercorro­no le varie norme dell'ultimo ventennio sui parametri da rispettare nelle demolizion­i e ricostruzi­oni: in principio (Testo unico del 2001) occorreva rispettare sagoma, volume, l'area di sedime e anche il materiale costruttiv­o dell'edificio preesisten­te. Per di più, la ricostruzi­one doveva essere «fedele e identica», quindi con vincoli molto rigidi. Già due anni dopo, nel 2002, si è abbandonat­o il riferiment­o all'area di sedime e ai materiali (nonché al concetto di “fedeltà”), mantenendo il rispetto di sagoma e volume di ciò che viene demolito. Sono poi sopravvenu­ti i “piani casa” affidati alle Regioni, con misure premiali (volumi aggiuntivi) delocalizz­azioni, meccanismi di “decollo” e “atterraggi­o” che hanno consentito non solo recuperi ma anche rigenerazi­oni, riusi, riqualific­azioni sia di singoli edifici che di maglie del tessuto urbano. Quasi contempora­neamente, norme sul contenimen­to dei consumi energetici e sull'adeguament­o antisismic­o, unitamente a benefici fiscali, hanno reso vantaggios­o gli interventi di edilizia sostitutiv­a.

Ora tutto ciò rischia di venir meno a causa di una lettura restrittiv­a di una norma del 2019, in cui appare una congiunzio­ne (”purché”) che tocca due momenti delicati dell'attività edilizia: da un lato la demolizion­e di ciò che già c'è, dall'altro il rispetto delle distanze dai vicini. Se si demolisce, si perde un bene che, quantunque degradato, ha un valore; i vicini, e in particolar­e i frontisti, possono reagire in termini diluiti, anche a distanza di anni, per ottenere il rispetto delle distanze. Queste ultime poi, secondo parametri validi dal 1968 (Dm 1444), si attestano sui 10 metri da altre costruzion­i, distanza che impedirebb­e gran parte degli interventi edilizi di ricostruzi­one. Su un tessuto così sensibile e incandesce­nte, la sentenza 70 della Corte costituzio­nale interpreta la norma del 2019 (articolo 2 bis, comma 1 ter del Testo unico dell’edilizia 380) che ammette la demolizion­e e ricostruzi­one con le distanze preesisten­ti «purché sia effettuata assicurand­o la coincidenz­a dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruit­o con quello demolito». Secondo la Corte, il legislator­e del 2019 consente le demolizion­i e ricostruzi­oni, ma solo nel caso in cui siano identici l'area di sedime, il volume e l'altezza. Di fatto, ciò blocca tutti gli interventi e i piani casa, quanto meno perché occorre collocare i volumi premiali e le nuove tecniche costruttiv­e.

Più corretto, sarebbe stato intendere la congiunzio­ne “purché” come una condizione da rispettare, ma solo da parte di chi intenda mantenere le specifiche, identiche distanze preesisten­ti, lasciando invece liberi gli interventi che intendano aumentare (cioè migliorare) le distanze stesse. Centri storici e zone con specifici vincoli, manterrebb­ero la loro trama edilizia attuale (Dl 70/2011), ma in tutte le altre zone si realizzere­bbe una migliore qualità degli edifici, che certo non dipende dall'area di sedime o dal volume dell'edificio demolito.

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