Allevamenti sostenibili sempre meno inquinanti
Zootecnia. Secondo le associazioni dell’industria della carne (che non si è mai fermata) il lockdown ha dimostrato quanto sia sovrastimato l’impatto ambientale del settore
Dell’esperienza del lockdown (sperando che non ne siano necessari altri) resteranno di certo le tante immagini delle città italiane restituite, deserte, al loro splendore, come gli animali in luoghi altrimenti affollati e per loro off limits. «La natura si riprende i propri spazi» è stato detto da molti e questo anche grazie al sostanziale abbattimento dell’inquinamento cittadino in buona parte legato allo stop del traffico e di molte attività produttive.
L’evidente miglioramento della qualità dell’aria ha toccato anche le città lombarde. Ovvero le città dell’area del Paese che registra la maggiore densità di allevamenti zootecnici, proprio una delle attività che negli ultimi anni più è stata accusata di svolgere un ruolo chiave nell’inquinamento atmosferico (per il rilascio di polveri sottili e di ammoniaca nell’aria) e che a differenza di tanti altri settori nel corso del lockdown è rimasta pienamente in funzione come tutto il comparto agricolo. Forse il ruolo della zootecnia nell’inquinamento è stato sovrastimato?
«È quello che noi sosteniamo da anni – spiega il presidente dell’Associazione Carni sostenibili nonché docente di zootecnica dell’Università di Sassari, Giuseppe Pulina – e che in questo frangente ha avuto una rappresentazione plastica. Dobbiamo attendere ora che i dati scientifici supportino quanto noi sosteniamo e che intanto a molti è sembrato evidente».
L’associazione carni sostenibili è nata 2013 dall’impegno di Assocarni, Assica e Unaitalia (rispettivamente le associazioni degli industriali delle carni bovine, dei salumi e delle carni avicole) per promuovere l’impegno sul fronte della sostenibilità di una filiera che in Italia conta complessivamente 15 milioni di capi per un giro d’affari di circa 30 miliardi (10 dei quali nei soli allevamenti) e 174mila addetti.
«Sono anni che il consumo di carne viene messo all’indice – continua Pulina – spesso partendo da presupposti completamente errati. Il mercato e il consumatore restano sovrani, ma almeno che possano decidere sulla base di informazioni corrette e non di allarmi ingiustificati creati promuovendo a verità assoluta quelle che sono semplici ipotesi o forzando conclusioni che in realtà non sono mai state raggiunte».
Tra gli allarmi ingiustificati secondo l’Associazione carni sostenibili c’è ad esempio quello sull’eccessivo consumo di carne in Italia. «Molte delle accuse non parlano in genere del consumo di carne ma del consumo eccessivo – aggiunge Pulina -. Ipotesi che si fonda su evidenti errori di calcolo. Attualmente si stima il consumo presunto partendo dai volumi di carne in entrata cioè prodotti e importati. Quantitativi che sono al lordo di tutte le parti (ossa, grasso) che poi non finiscono nel piatto del consumatore. A ristabilire la verità di recente è stato il lavoro certosino di Vincenzo Russo, docente emerito di Zootecnia dell’Università di Bologna, che analizzando i consumi in casa e fuori casa e depurandoli delle parti non commestibili ha chiarito che in realtà il consumo medio degli italiani ammonta a 37,9 kg l’anno pro capite e non come si pensava 79,1. Da questo errore di calcolo discendono poi altre critiche come ad esempio la connessione tra consumo di carne e cancro sottolineata dall’Oms e che andrebbe riesaminata alla luce del dato sui consumi effettivi».
E poi c’è in genere il capitolo della sostenibilità degli allevamenti. «Il principale problema delle accuse continuamente mosse alla zootecnia – dice ancora il presidente dell’Associazione carni sostenibili – è che ha messo invece la sordina al grande lavoro fatto dalla filiera italiana delle carni sulla sostenibilità».
Secondo i dati dell’Associazione carni sostenibili, nel 1960 per produrre un chilo di carne si emettevano 28 chilogrammi di CO2, oggi 12. E molti progressi sono stati ottenuti a partire dall’introduzione della direttiva Ue sull’uso dei nitrati nel 1991 che ha regolato l’utilizzazione agronomica degli effluenti. «Da quel momento – spiega Pulina – in Italia la quantità di azoto escreto per chilo di proteina è passato dagli 1,2 chilogrammi agli attuali 0,9. A questo va aggiunto che ben 642 aziende italiane hanno investito sulla produzione di energia realizzando digestori che consentono di trasformare quello che prima era un problema in energia arrivando oggi a coprire il 2% della produzione italiana di energia da fonti rinnovabili. E infine c’è il tema delle polveri sottili generate dagli allevamenti. Polveri che addirittura alcuni vedrebbero come strumento di diffusione del Covid-19. Dai dati emerge che dagli allevamenti deriva il 12% del particolato grosso Pm10 e il 3% del particolato fine. Il che significa che rispettivamente l’88% del Pm10 e il 97% del Pm2.5 derivano da altre fonti».