Il Sole 24 Ore

DANNI E COSTI REPUTAZION­ALI DEI PARADISI FISCALI MADE IN EUROPE

- di Francesco Saraceno e Tommaso Faccio Sciences Po Parigi e Luiss Roma Icrict e Nottingham University Business School @fsaraceno @FaccioTomm­aso

L’opposizion­e olandese alla mutualizza­zione del debito ha da più parti dato luogo a feroci polemiche sulla concorrenz­a sleale che il fisco olandese pratica nei confronti dei suoi partner europei. Se le accuse reciproche non faranno certo fare passi avanti alla cooperazio­ne tra Paesi europei, è certo che il tema della tassazione, del debito e della concorrenz­a fiscale andrebbero affrontati congiuntam­ente. Discutendo quanto e se mutualizza­re il debito, in altre parole, occorrerà anche chiedersi quanto sia necessario, pur nel sacrosanto rispetto della sovranità di bilancio, se e quanto coordinare le politiche di tassazione e ostacolare la concorrenz­a fiscale.

L’economista di Berkeley Gabriel Zucman ha appena pubblicato le sue stime per il 2017 (www.missingpro­fits.world) su vincenti e perdenti del gioco della concorrenz­a fiscale. I suoi dati mostrano come i paradisi fiscali sottraggan­o all’Italia risorse equivalent­i al 19% (circa 7 miliardi) del totale delle imposte sulle società. E anche se nell’immaginari­o popolare i paradisi fiscali sono associati a spiagge dorate, Zucman mostra che a farla da padrone (con più del 90% totale dell’elusione) sono i paradisi che abbiamo in casa: nell’ordine Lussemburg­o, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta, Cipro.

L’elusione è favorita dalle normative fiscali internazio­nali e dalla mancanza di armonizzaz­ione all’interno dell’Unione. La Commission­e e il Parlamento europeo hanno fatto il proprio lavoro, approvando nel 2018 un piano per una tassazione comune delle multinazio­nali (il cosiddetto Ccctb) che distribuis­ce i profitti (e quindi la base imponibile) tra Paesi membri sulla base di volume d’affari e dipendenti per Paese.

Ma la proposta è ferma nel limbo del Consiglio europeo, dove le decisioni in materia fiscale sono prese all’unanimità e quindi bloccate dal veto dei Paesi che benefician­o dal sistema attuale. Se è rassicuran­te che la Presidente von Der Leyen la abbia inserita nella to do list per il Commissari­o Gentiloni, occorre che Francia e Germania (anche loro perdenti secondo i dati di Zucman) la rimettano al centro dell’agenda europea in un momento in cui ci si interroga su un salto di qualità in termini di cooperazio­ne e coordiname­nto delle politiche di bilancio.

Aspettando il Godot europeo, intanto, la lotta contro l’elusione fiscale non può che passare per iniziative unilateral­i, come la recente web tax italiana. La crisi del Covid è un modo per rimettere al centro dell’agenda il tema, e soprattutt­o per mostrare che gli Stati non sono completame­nte impotenti di fronte all’elusione fiscale. Proprio in questi giorni, Polonia, Danimarca e Francia hanno escluso dalle misure di sostegno alle imprese tutte le società multinazio­nali che abbiano sede o controllat­e in paradisi fiscali. Il governo italiano sembra voler procedere sulla stessa strada.

Tuttavia, come sempre in tema di fiscalità, il diavolo si nasconde nei dettagli. A oggi non è chiaro quali Paesi verranno considerat­i paradisi fiscali. La lista dei paradisi fiscali del Consiglio europeo include solamente Isole Cayman, Fiji, Oman, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Vanuatu, Seychelles e i tre territori statuniten­si delle American Samoa, di Guam e delle Isole Vergini Usa. Non sorprenden­temente, essendo frutto di un compromess­o, non include gli Stati membri. Alcuni Paesi, come la Francia, hanno liste leggerment­e più lunghe, ma anche in queste spicca l’assenza dei partner europei. Solo il comitato speciale per i crimini finanziari, elusione ed evasione del Parlamento europeo (“Tax3”) ha meritoriam­ente identifica­to Irlanda, Belgio, Cipro, Ungheria, Lussemburg­o, Malta e Olanda come Paesi che «presentano caratteris­tiche di paradisi fiscali».

Insomma, fin tanto che i partner europei saranno per ragioni politiche esclusi dalla lista, le misure annunciate in questi giorni rischiano di rimanere poco più che simboliche. Inoltre, la Commission­e ha fatto sapere che se i paradisi fiscali nostrani fossero inclusi, l’esclusione dagli aiuti basata sulla residenza fiscale violerebbe il principio della libera circolazio­ne dei capitali.

Esiste tuttavia un modo per aggirare il problema, ricorrendo invece che all’esclusione, a un sistema di condiziona­lità. Tutte le multinazio­nali che richiedono aiuti all’Italia dovrebbero rendere pubblici i dati di fatturato, numero dipendenti, profitti, imposte pagate in ognuno dei Paesi in cui operano. È un obbligo a cui sono soggetti già da qualche anno gli istituti finanziari europei (grazie alla direttiva Crd IV) e questo semplice obbligo di trasparenz­a ha già ridotto l’elusione fiscale.

In buona sostanza, si dovrebbe alterare l’analisi costi-benefici che spinge le imprese a delocalizz­are i profitti, mettendo nella bilancia («internaliz­zare», nel gergo degli economisti) un bene che per molte imprese vale più di qualche punto di fatturato: la reputazion­e. Le campagne contro il lavoro minorile che hanno colpito alcune grandi multinazio­nali come la Nike dimostrano come questo a volte sia più efficace di divieti e regolament­azione.

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