DANNI E COSTI REPUTAZIONALI DEI PARADISI FISCALI MADE IN EUROPE
L’opposizione olandese alla mutualizzazione del debito ha da più parti dato luogo a feroci polemiche sulla concorrenza sleale che il fisco olandese pratica nei confronti dei suoi partner europei. Se le accuse reciproche non faranno certo fare passi avanti alla cooperazione tra Paesi europei, è certo che il tema della tassazione, del debito e della concorrenza fiscale andrebbero affrontati congiuntamente. Discutendo quanto e se mutualizzare il debito, in altre parole, occorrerà anche chiedersi quanto sia necessario, pur nel sacrosanto rispetto della sovranità di bilancio, se e quanto coordinare le politiche di tassazione e ostacolare la concorrenza fiscale.
L’economista di Berkeley Gabriel Zucman ha appena pubblicato le sue stime per il 2017 (www.missingprofits.world) su vincenti e perdenti del gioco della concorrenza fiscale. I suoi dati mostrano come i paradisi fiscali sottraggano all’Italia risorse equivalenti al 19% (circa 7 miliardi) del totale delle imposte sulle società. E anche se nell’immaginario popolare i paradisi fiscali sono associati a spiagge dorate, Zucman mostra che a farla da padrone (con più del 90% totale dell’elusione) sono i paradisi che abbiamo in casa: nell’ordine Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta, Cipro.
L’elusione è favorita dalle normative fiscali internazionali e dalla mancanza di armonizzazione all’interno dell’Unione. La Commissione e il Parlamento europeo hanno fatto il proprio lavoro, approvando nel 2018 un piano per una tassazione comune delle multinazionali (il cosiddetto Ccctb) che distribuisce i profitti (e quindi la base imponibile) tra Paesi membri sulla base di volume d’affari e dipendenti per Paese.
Ma la proposta è ferma nel limbo del Consiglio europeo, dove le decisioni in materia fiscale sono prese all’unanimità e quindi bloccate dal veto dei Paesi che beneficiano dal sistema attuale. Se è rassicurante che la Presidente von Der Leyen la abbia inserita nella to do list per il Commissario Gentiloni, occorre che Francia e Germania (anche loro perdenti secondo i dati di Zucman) la rimettano al centro dell’agenda europea in un momento in cui ci si interroga su un salto di qualità in termini di cooperazione e coordinamento delle politiche di bilancio.
Aspettando il Godot europeo, intanto, la lotta contro l’elusione fiscale non può che passare per iniziative unilaterali, come la recente web tax italiana. La crisi del Covid è un modo per rimettere al centro dell’agenda il tema, e soprattutto per mostrare che gli Stati non sono completamente impotenti di fronte all’elusione fiscale. Proprio in questi giorni, Polonia, Danimarca e Francia hanno escluso dalle misure di sostegno alle imprese tutte le società multinazionali che abbiano sede o controllate in paradisi fiscali. Il governo italiano sembra voler procedere sulla stessa strada.
Tuttavia, come sempre in tema di fiscalità, il diavolo si nasconde nei dettagli. A oggi non è chiaro quali Paesi verranno considerati paradisi fiscali. La lista dei paradisi fiscali del Consiglio europeo include solamente Isole Cayman, Fiji, Oman, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Vanuatu, Seychelles e i tre territori statunitensi delle American Samoa, di Guam e delle Isole Vergini Usa. Non sorprendentemente, essendo frutto di un compromesso, non include gli Stati membri. Alcuni Paesi, come la Francia, hanno liste leggermente più lunghe, ma anche in queste spicca l’assenza dei partner europei. Solo il comitato speciale per i crimini finanziari, elusione ed evasione del Parlamento europeo (“Tax3”) ha meritoriamente identificato Irlanda, Belgio, Cipro, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Olanda come Paesi che «presentano caratteristiche di paradisi fiscali».
Insomma, fin tanto che i partner europei saranno per ragioni politiche esclusi dalla lista, le misure annunciate in questi giorni rischiano di rimanere poco più che simboliche. Inoltre, la Commissione ha fatto sapere che se i paradisi fiscali nostrani fossero inclusi, l’esclusione dagli aiuti basata sulla residenza fiscale violerebbe il principio della libera circolazione dei capitali.
Esiste tuttavia un modo per aggirare il problema, ricorrendo invece che all’esclusione, a un sistema di condizionalità. Tutte le multinazionali che richiedono aiuti all’Italia dovrebbero rendere pubblici i dati di fatturato, numero dipendenti, profitti, imposte pagate in ognuno dei Paesi in cui operano. È un obbligo a cui sono soggetti già da qualche anno gli istituti finanziari europei (grazie alla direttiva Crd IV) e questo semplice obbligo di trasparenza ha già ridotto l’elusione fiscale.
In buona sostanza, si dovrebbe alterare l’analisi costi-benefici che spinge le imprese a delocalizzare i profitti, mettendo nella bilancia («internalizzare», nel gergo degli economisti) un bene che per molte imprese vale più di qualche punto di fatturato: la reputazione. Le campagne contro il lavoro minorile che hanno colpito alcune grandi multinazionali come la Nike dimostrano come questo a volte sia più efficace di divieti e regolamentazione.