L’imposta più pesante per chi soffre in misura maggiore il virus
Già la definizione del tributo lo qualifica in termini di contrasto ad una corretta politica imprenditoriale: imposta sulle attività produttive, cioè su quell’ambito che dovrebbe essere agevolato per la creazione di valore e di occupazione non parassitaria.
Nella formulazione di questo tributo, vigente dal 1° gennaio 1998, era un vigoroso incentivo alla delocalizzazione all’estero delle attività produttive, in quanto era ed è pagata solo da chi lavora in Italia, ma all’inizio questo effetto era decisamente più rilevante, in quanto si computava l’intero costo del lavoro nella base imponibile e l’Irap era interamente indeducibile.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al reshoring, al rientro delle produzioni che erano state trasferite all’estero. Con l’Irap chi attua questa meritevole riorganizzazione viene accolto da questo balzello. Sicuramente anomala è l’inclusione nell’imponibile delle perdite su crediti. Chi aveva ideato questo balzello intendeva verosimilmente riferirsi al «valore aggiunto», dimenticando che l’Iva sulle insolvenze può essere recuperata da chi ha emesso la fattura, mentre l’Irap rimane dovuta.
A proposito di correlazione e conseguente incompatibilità con l’Iva, la questione era arrivata alla Corte Ue con la causa C-475/03. Caso in pratica unico nella storia di questo organo, la causa ha visto non una ma due “conclusioni” dell’avvocato generale, del 17 marzo 2005 e del 14 marzo 2006: entrambe avevano proposto alla Corte di dichiarare l’illegittimità dell’Irap. La sentenza del 3 ottobre 2006 ribalta le conclusioni e dichiara che l’Irap è compatibile con le direttive che disciplinano l’Iva. Per far valere un rilevante peso politico, finalizzato a non perdere un gettito ancor più rilevante, il nostro Paese era riuscito a far intervenire in giudizio altri 14 stati europei (anche questo è un caso unico nella storia della Corte).
Superato questo ostacolo, il nostro legislatore ha effettuato alcuni interventi di rilievo. In particolare oggi la base imponibile dell’Irap non comprende più il costo del lavoro a tempo indeterminato, da un lato favorendo il passaggio a questa modalità di collaborazione nell’impresa, dall’altro penalizzando le attività che non possono qualificare così tutti i dipendenti. È la situazione tipica delle imprese turistiche, sia stagionali che con punte di accessi nei fine settimana. E stiamo sicuramente parlando delle imprese che subiscono e subiranno i maggiori danni dall’emergenza sanitaria.
Queste sono le maggiori criticità dell’Irap. Ma ce ne sono altre due che devono essere risolte, con l’auspicata sostituzione di questo tributo con una addizionale alle imposte dirette.
La prima riguarda le partite Iva individuali, di soggetti che si avvalgono di collaborazioni limitate. L’unica certezza di non pagare il balzello riguarda chi lavora in casa senza nessun aiuto. Se si comincia ad avere un dipendente (magari d’ordine) o un’attrezzatura le contestazioni sono ancora rilevanti, in quanto la Cassazione ammette questi sussidi all’attività, ma che non devono eccedere le quantità che costituiscono «il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione».
La “filosofia” (chiamiamola così) dell’Irap è di tassare «un’entità reale rilevante sotto il profilo della capacità contributiva e che può identificarsi con il dominio sui fattori della produzione e con la potenzialità economica e produttiva» (F. Gallo – Il Sole 24 Ore del 3 maggio 1997).
La seconda anomalia riguarda la sua base imponibile, che non coincide né con le risultanze del conto economico dell’impresa né con l’imponibile reddituale. Nella prassi professionale si parla infatti di “triplo binario” di calcolo (il primo è il bilancio, il secondo è la dichiarazione dei redditi).
L’emergenza sanitaria ha fatto scrivere a molti che se si vuole ripartire in modo decoroso bisogna eliminare storture e complicazioni. Il calcolo della base imponibile dell’Irap rientra sicuramente in questo ambito. E visto che parliamo di attività produttive, un’altra modifica riguarda la destinazione all’erario centrale e non agli enti locali dell’Imu sugli immobili della categoria D, cioè su quelli produttivi.
Il costo dei lavoratori a tempo indeterminato non entra nell’imponibile Irap: danneggiate le attività stagionali