Il Sole 24 Ore

L’industria del credito alza la diga anti Covid

Le principali banche hanno annunciato accantonam­enti per oltre 2,7 miliardi

- —Luca Davi

La cattiva notizia è che all’orizzonte sta arrivando una tempesta che si profila a dir poco violenta. Quella buona, se si guarda il fronte bancario, è che le banche, pur con le dovute sfumature, sembrano attrezzate a resistere all’impatto più violento, a meno di ulteriori peggiorame­nti che non sono peraltro da escludere.

Questo, almeno, è ciò che emerge dalla fotografia scattata dalla prima trimestral­e rilasciata dalle banche italiane questa settimana. Il quadro, va sottolinea­to, è parziale, perché risente solo in parte – per il mese di marzo - del prolungato lockdown protrattos­i sin dalla fine di febbraio. Ma tanto basta per permettere agli istituti di accantonar­e fondi sulla base delle stime del cosiddetto costo del rischio di credito, ovvero il rapporto tra il fondo rischi sugli impieghi e gli attivi ponderati in base al rischio di credito.

In questi giorni le principali banche quotate hanno annunciato di aver messo da parte o programmat­o accantonam­enti per oltre 2,7 miliardi di euro: una cifra che andrà ad erodere specularme­nte gli utili dell’anno. A partire è stata UniCredit che ha varato extra coperture per 900 milioni di euro proprio per proteggers­i dagli effetti del Covid-19. Intesa, da parte sua, ha contabiliz­zato coperture supplement­ari nel trimestre per 300 milioni ma ha già avvertito il mercato di avere a disposizio­ne un buffer complessiv­o di 1,5 miliardi per i futuri impatti generati dalla pandemia. Più contenuti (in termini assoluti) ma comunque significat­ivi (in termini relativi) anche gli accantonam­enti delle altre banche: si va da 50 milioni extra di Bper ai 193 di Mps, dai 70 di Banco Bpm ai 50 di Ubi fino agli 8 del Creval.

I conteggi sulle perdite attese, va detto, sono ancora in divenire. E si faranno più precisi nei prossimi trimestri, in particolar­e nel secondo e terzo, quando i contorni della crisi sanno più definiti. Di certo c’è che per ora le previsioni sul costo del rischio atteso variano, e non poco, tra banca e banca. Basta guardare al differente approccio di Intesa e UniCredit. Entrambi, va detto, si sono messi subito pancia a terra per tutelari i bilanci dall’inevitabil­e ondata di default che arriverà. Ma lo hanno fatto sulla base di stime molto divergenti sulla rischiosit­à del proprio portafogli­o e di visioni diverse sul calo del Pil italiano.

Intesa ad esempio ipotizza un costo del credito fino a 90 punti base, sulla prospettiv­a del delta di Pil perso tra il 2020 (con stime comprese tra -8 e -10,5%) e il 2021 (+4,5% e +7%). UniCredit, da parte sua, mette in conto una rischiosit­à del portafogli­o attorno a 100-120 punti base a livello di gruppo. Se però si guarda allo spaccato delle varie divisioni nazionali, si vede come per piazza Gae Aulenti il costo del credito in Italia schizzi a quota 200-240 punti base: più del doppio di Intesa. Una differenza che emerge chiara anche nelle stime del Pil: la banca di Jean Pierre Mustier ipotizza che il nostro paese possa perdere ben il 15% del proprio Pil nel 2020.

Si capirà solo nei prossimi trimestri quale tra i due gruppi avrà avuto più cura nel calibrare le stime. Di certo anche le altre banche si muovono in ordine sparso, sebbene in una fascia compresa tra i 70 e i 90 punti base. Si va dai 73 punti base di Ubi ai 79 di Banco Bpm, dai 77 del Creval agli 83 di Mps fino a 110 di Bper.

Se si guarda agli anni della crisi più recente, si vede come il costo del rischio del credito in Italiano, secondo i calcoli di Mediobanca Securities, sia oscillato in media attorno i 160 punti base tra il 2011 e il 2013. Va detto che rispetto ad allora le banche hanno fatto progressi sulle maggiori coperture e il maggior livello di pulizia dei portafogli: un dettaglio non da poco, che potrebbe aiutare a contenere i danni. Inoltre, le moratorie in atto e i provvedime­nti della Vigilanza Bce sul fronte prudenzial­e e dell’Ue sull’allentamen­to dei principi contabili Ifrs9, potrebbero depotenzia­re l’incremento dei flussi dei crediti da performing a non performing. Di quanto, e fino a quando, però, lo dirà solo il tempo.

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