Il nuovo senso del tempo davanti agli schermi
Occorre prenderne atto: lo schermo ha vinto. È stata necessaria l’emergenza per capire le potenzialità di quelle interfacce. Forse siamo noi a non distinguere tra reale e immaginario
«Sarà che abbiamo tutti nella testa un maledetto muro», come cantava Ivano Fossati. E dev’essere molto solido, perché sta lì da tantissimo tempo. Senz’altro c’era già al tempo di Platone. Lui però lo immaginava come la parete rocciosa che i prigionieri della caverna erano obbligati dalle catene a fissare, vedendovi proiettate delle ombre che scambiavano per la realtà. Ma quel muro è talmente saldo, nella nostra testa, che dev’essere tornato in mente, ancora nel 2011, a un creativo francese poco creativo, incaricato di convincere genitori e bambini che le immagini sono trappole e gli schermi, appunto, muri di prigioni. Eccolo allora realizzare un video in cui un ragazzino bussa disperato contro gli schermi dentro cui è rimasto imprigionato, disseminati tra i giocattoli abbandonati di una casa deserta.
Solo nove anni dopo quel video, andate a spiegarla ora, nei giorni dell’emergenza da coronavirus, questa idea degli schermi come muri che ci rinchiudono nella trappola delle immagini escludendoci dalla realtà. Del resto, lo annuncia anche il titolo di un articolo del New York Times del 31 marzo scorso: Il coronavirus ha chiuso la discussione sul tempo davanti agli schermi. Gli schermi hanno vinto.
L’articolo precisa però che la nostra resa senza condizioni al loro assedio va intesa per il solo periodo dell’emergenza. Tutti gli intervistati si mostrano infatti convinti che, finito quel periodo, i nostri rapporti con gli schermi non ne saranno stati irrimediabilmente trasformati. Anzi, alcuni sperano che la lezione ci sarà servita a sentire una maggiore esigenza di contatti fisici con gli altri esseri umani. A questo punto chi legge non può reprimere la tacita speranza che nessuno impari quella lezione, altrimenti si rischierebbe una terrificante recrudescenza dei contagi.
Ecco allora che i dubbi sul ritorno al “come prima”, magari condito di saggezza nuova, cominciano a farsi strada. Perché, in un mondo reso drasticamente più povero, dovrebbero continuare a pagarmi viaggi aerei per partecipare a convegni internazionali, quando si è visto che posso intervenirvi, con più modica spesa per gli organizzatori, restando a casa mia? Ma anche: perché, finita l'emergenza, dovrei smettere di cenare su Skype con quella coppia di Londra che non avevo mai avuto modo di frequentare prima, adesso che ho scoperto che non solo è possibile, ma anche semplice e piacevole? In fondo, lo stesso articolo del New York Times riporta una dichiarazione della tecno-pentita psicologa Sherry Turkle, che quattro anni dopo il libro in cui ci implorava di fare una chiacchierata piuttosto che guardare il cellulare, ora ammette che «costretti a rimanere da soli ma volendo essere insieme, moltissimi stanno scoprendo cosa dovrebbe essere il tempo davanti agli schermi». Già, perché non è proprio quella chiacchierata auspicata dalla Turkle che gli schermi mi hanno consentito di fare l’altra sera, permettendomi di approfondire finalmente la conoscenza della coppia di Londra?
L’emergenza da pandemia ci ha dunque fatto «scoprire» – è il verbo usato dalla Turkle – cose che né lei né noi avevamo ben chiare - però fatemi aggiungere: chi più, chi meno. Ecco alcune di quelle che mi vengono in mente adesso.
1. Gli schermi non sono – né sono mai stati – semplici superfici per mostrare immagini e, magari, tra loro intrappolarci. Pensiamo alla siepe che Leopardi guardava dal colle dell’Infinito e che gli schermava il paesaggio sottostante, stimolandolo a immaginare quanto non poteva vedere. Come quella siepe, in ogni epoca gli schermi operano una certa distribuzione del visibile e dell'invisibile, di volta in volta istituendo relazioni e perciò aprendo esperienze. Insomma, anziché come semplici superfici, gli schermi hanno sempre funzionato da interfacce, se è questo che mettere in relazione sottintende.
2. Con la rivoluzione elettronica e poi con quella digitale, gli schermi sono via via diventati appunto le principali interfacce visuali della nostra comunicazione, nel frattempo sviluppandola in senso multimodale, variamente abbinando cioè testi, immagini, suoni, compresi sguardi, gesti, voci.
3. Abbiamo tuttavia avuto bisogno dell’emergenza da pandemia, all’incirca trent’anni dopo l’inizio della diffusione di internet, per renderci massicciamente conto, nella nostra esperienza collettiva, di certe possibilità che gli schermi, appunto in quanto interfacce, ci offrivano. Allora non ci siamo più limitati a scambiarci foto di cibo prima di assaggiarlo, ma abbiamo preso a consumarlo insieme, grazie agli schermi. È questo che fa dire alla Turkle che stiamo «scoprendo cosa dovrebbe essere il tempo» trascorso davanti a loro. Eppure la possibilità di impiegarlo in quel modo c’era già. Perché non ci aveva interessato sfruttarla prima? Mi pare sia importante domandarsene le ragioni.
Vuoi vedere che, piuttosto degli schermi, il vero problema è quel muro che abbiamo nella testa, da un lato del quale pretendiamo stia ciò che consideriamo realtà e dall'altro quanto di volta in volta chiamiamo immaginario, ideale o virtuale? Come se i due lati non si richiamassero a vicenda in continuazione, smentendo così di essere davvero divisi.
Magari le comunicazioni schermate, cui ancora a lungo saremo chiamati, ci aiutassero almeno a fargli qualche crepa, nel maledetto muro.
Finora facevamo le foto al cibo, ora abbiamo realizzato che possiamo anche condividerlo in maniera virtuale