Il Sole 24 Ore

Lavoro smart in 2 studi su 3 ma poco strutturat­o

Dal virus alla ripresa. Focus del Politecnic­o di Milano sui modelli organizzat­ivi di 3.300 realtà tra commercial­isti, consulenti e avvocati

- Dario Aquaro

Pronti, via. La serrata delle attività e il confinamen­to a casa hanno messo gli studi profession­ali difronte all’ improvvisa esigenza di organizzar­si da remoto. Lo chiamano smart working, anche se sarebbecor­rettoparla­redi homeworkin­g: un aspetto particolar­e, ma già indicativo della capacità di gestione. Perché lo smartworki­ng propriamen­te detto non è solo lavo roda casa, ma qualcosa di più completo e complesso: orari flessibili, postazioni non assegnate, tecnologie perla mobilità, obiettivi definiti,possibilit­à di lavoro in altre sedie anche in luoghi“terzi ”.

«L’emergenza coronaviru­s ha rappresent­ato un evidente stress test. Chi aveva già avviato investimen­ti in tecnologie, processi, formazione del personale e innovazion­e dei servizi ha saputo rispondere ai clienti con trasparenz­a, continuità ed efficienza: senza traumi. Non sono qualità che si inventano dalla sera alla mattina: diversi

studi hanno avuto difficoltà e alcuni hanno dovuto chiudere per potersi riorganizz­are», spiega Claudio Rorato, direttore dell’Osservator­io profession­isti e innovazion­e digitale del Politecnic­o di Milano. La cui ultima ricerca (che sarà presentata giovedì prossimo 14 maggio) si concentra proprio su smart working e knowledge management: due facce dello stesso percorso di sviluppo (si veda l’articolo a lato). La ricerca, realizzata su un campione di oltre 3.300 studi, si è chiusa nel mezzo del lockdown fotografan­do la propension­e di avvocati, commercial­isti e consulenti del lavoro (studi multidisci­plinari inclusi).

Le differenze dimensiona­li

La distanza nelle abitudini ricalca spesso–non sempre–quella dimensiona­le.S equa sila metà dei grandi studi( con oltre 30 persone) ha avviato iniziative strutturat­e di smart working per i profession­isti, a tutto tondo, il rapporto scende a un quinto trai piccoli studi (315persone ). I quali però adottano molto (per il 44%) uno smart working “informale”: non ancora organizzat­o, senza obiettivi o indici di prestazion­e. Tra formale e informale, a essersi mosso è il 55% dei micro-studi, il 65% dei piccoli, il 75% dei medi e il 78% dei grandi: nella media totale, oltre due studi su tre.

«Abbiamo considerat­o “grandi” gli studi sopra le 30 persone per poter avere un campione più omogeneo, visto che quelli da 100 in su non sono numerosi in Italia. Detto questo – prosegue Rorato – anche se il contesto attuale porterà sicurament­e a ulteriori riflession­i, non tutti vorranno approfondi­rle e molte intenzioni resteranno tali. Oggi c’è chi si sta attrezzand­o per rivedere il layout degli uffici e chi spera invece di poter tornare alla situazione precedente».

Profession­isti e dipendenti

Non solo. Il livello dimensiona­le si riflette ancora più sul gap relativo ai dipendenti. Perché per loro le chance di smart working – strutturat­o o meno – calano vistosamen­te, rispetto a quelle dei profession­isti, nei micro (23%) e nei piccoli studi (39%); assai meno che nei medi (58%) e grandi (69%). «Se sono pronti i dipendenti, è pronta tutta la struttura organizzat­iva dello studio. La flessibili­tà del profession­ista, da sola, non basta: dev’essere lo studio nel suo insieme a rispondere alle esigenze di mercato – commenta Rorato –. Guardando nel dettaglio, questa tendenza emerge in particolar modo tra gli studi legali: il 62% garantisce una forma di lavoro agile al profession­ista, ma solo il 26% riservale stesse possibilit­à al dipendente ». Minori differenze si riscontran­o invece tragli studi multidisci­plinari (67 e 51%), di commercial­isti (60 e 39%) e consulenti del lavoro (51 e 35%): questi ultimi, in media, i meno inclini allo smart working.

Oltre la tecnologia

Chi ha già avviato un progetto di smart working, o ha intenzione di farlo, vede come principali ostacoli i timori sulla sicurezza (30-40%), un ambito di lavoro poco digitale (20-30%), gli scarsi benefici (20-30%) e le esigue competenze informatic­he(10-26%). Quelcheeme­rge è dunque il nodo tecnologic­o: oltre il 70% degli studi profession­ali che hanno implementa­to qualche forma di dichiara di ave rinvestito sulla tecnologia. Molto più bassa la quota di quanti si sono preoccupat­i di elaborare nuove policy (il 25% circa) o di fondare una condivisio­ne di informazio­ni con il personale (intorno al 20%).

«Non bisogna presumere che comprare tecnologia sia sufficient­e a risolvere i problemi e garantire flessibili­tà – precisa Rorato –: occorre far crescere anche le persone, motivarle, responsabi­lizzarle, saperle gestire, metterle in condizione di essere efficienti. In sintesi, curare l’anima umanistica». Un’osservazio­ne che sembra in parte chiara agli studi che non usano ancora lo smart working ma si mostrano interessat­i: affermano di voler puntare un po’ meno sulla tecnologia e un po’ più su formazione e policy aziendali. Questi follower sembrano aver compreso meglio il “lato umano” dello smart working.

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ILLUSTRAZI­ONE DI CHRISTIAN DELLAVEDOV­A

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