I PRIVATI CI SONO, MA CHIEDONO REGOLE CHIARE
Sempre più osservatori concordano sul fatto che per superare questa fase di profonda crisi le sole risorse pubbliche non basteranno e sarà necessario coinvolgere il settore privato: sia grandi investitori istituzionali, sia semplici risparmiatori. I metodi per farlo sono molti e altrettante sono le proposte. Ritengo che siano adatti – per quello che riguarda gli investimenti nel capitale di rischio, inclusi quelli aventi come obiettivo le ristrutturazioni aziendali – gli strumenti che, improntati alle logiche del private equity, si basano sulla collaborazione tra pubblico e privato come i fondi misti, già utilizzati con successo in passato.
Ma ce ne possono essere anche altri che affrontano criticità diverse. In momenti come questi nulla va escluso e tutto va approfondito, sfruttando competenze e risorse disponibili e capitalizzando sulle esperienze fatte negli altri Paesi. Non siamo gli unici né i primi ad avere questi problemi.
Tuttavia, qualunque sia lo strumento utilizzato, a meno che non si voglia ricorrere a meccanismi coercitivi per coinvolgere i privati, è indispensabile rispondere ad alcune domande. Come funzionerà la governance di questi strumenti? Chi gestirà le risorse? Quali saranno i criteri di allocazione? Chi fisserà gli obiettivi ? Chi ne controllerà, e come, il raggiungimento? Con quali criteri verranno selezionati i soggetti che utilizzeranno le risorse? Come saranno responsabilizzati? Quale grado di autonomia avranno? Domande semplici che richiedono risposte chiare.
Potrebbe essere utile studiare i meccanismi di governance dei fondi di investimento pubblico-privato utilizzati da tempo come strumento di intervento. Talvolta è più facile copiare e migliorare, che non inventare da zero.
Benché con caratteristiche diverse, questi strumenti hanno come comune denominatore e imprescindibile necessità quella di assicurare agli investitori che le risorse (pubbliche e private) siano gestite da professionisti di riconosciuta esperienza nell’ambito delle attività da finanziare; che questi soggetti siano responsabilizzati e dotati della necessaria autonomia gestionale e che sottostiano a rigorose regole di governance, al fine di evitare conflitti di interesse. In sintesi, che siano liberi di agire, avendo come unico riferimento gli obiettivi economici e sociali concordati, che dovranno essere trasparenti e misurabili.
Il soggetto pubblico, o chi per esso, dovrà svolgere un ruolo di organizzazione e selezione dei soggetti più adatti ad affrontare le specifiche aree di intervento, per poi occuparsi della verifica dei risultati conseguiti e decidere sulla conferma o meno dei gestori. In tutti i casi in cui le risorse provengano da più soggetti – privati o pubblici che siano, come nel caso dei fondi – la separazione tra investitori e gestori dovrà essere netta.
Non si può escludere che si possano trovare soluzioni bilanciate – composizioni di “potere decisionale” negoziate in funzione delle specifiche aree di intervento; meccanismi di “peso e contrappeso” tarati differentemente – ed è necessario che i modelli di riferimento siano adattati alla situazione contingente e al nostro contesto economico e giuridico. Tutto si può valutare. Tutto si può discutere e migliorare. Ma una risposta chiara a questi interrogativi di fondo deve essere data, sulla base della quale i soggetti privati, decideranno se investire o meno.
Questa fase drammatica ci impone di superare eventuali ostacoli dovessero sorgere nell’accettare tali condizioni per fare un salto qualitativo e culturale che consenta di rifondare meccanismi che potrebbero non essere più adatti ad affrontare le contingenze del momento e di porre le basi per un futuro basato su un senso di reciproca fiducia. Anche nelle istituzioni, elemento indispensabile affinché iniziative di questo tipo possano funzionare.
Chiedere soldi ai privati è lecito, probabilmente inevitabile, ma va fatto nel rispetto dei princìpi indispensabili al mantenimento della stabilità sociale. A queste condizioni, penso che strumenti di questo tipo siano proponibili. E penso che gli investitori, istituzionali o privati che siano, con questo tipo di garanzie, possano accettare remunerazioni più mitigate e dilazionate nel tempo a fronte di obiettivi anche di carattere sociale. Ma è possibile proseguire su questa via solo con la certezza che queste risorse verranno utilizzate con professionalità, competenza e trasparenza nell’interesse del Paese. E se gli investitori privati fossero “obbligati” a intervenire (cosa che non mi auguro), le garanzie e i meccanismi alla base degli strumenti scelti dovranno essere ancora più stringenti e trasparenti, e le responsabilità individuali identificate e definite. È la chiarezza (e certezza) delle regole di governance la chiave per aprire questa porta.
Presidente esecutivo e socio fondatore di Private Equity Partners Professore a contratto di Private equity e Venture capital all’Università Bocconi di Milano