Ungheria e Polonia, sovranisti alla prova della recessione
Dopo la pandemia un altro nemico quasi sconosciuto per Budapest e Varsavia Orban e Kaczynski temono ripercussioni anche sul consenso in patria
Per Viktor Orban e Jaroslaw Kaczynski è una questione di consenso e quindi di potere. Tutta l’Europa centro-orientale è riuscita a contenere il Covid-19 con interventi tempestivi e spesso meno rigidi di quelli adottati in Occidente (in Ungheria si contano 3.300 casi e 425 decessi. In Polonia i casi sono 17mila e i morti 840). È già tempo di fare ripartire le linee produttive, sperando che nel frattempo anche la Germania faccia altrettanto. Sì, perché per i campioni del sovranismo la recessione è un nemico sconosciuto, quasi quanto il coronavirus, ma anche più temibile per l’impatto sulla popolazione e sull’opinione pubblica.
Per questo, le previsioni diffuse ieri dalla Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, mentre confermano il crollo delle attività economiche di quest’anno, mettono in allarme i governi di Budapest e Varsavia. «Le economie nei Paesi monitorati dalla Bers - dall’Europa centrale e orientale fino all’Asia centrale, al Medio Oriente e al Nord Africa - subiranno una contrazione media del 3,5% nel 2020, per poi rimbalzare del 4,8% nel 2021». Secondo gli esperti della Bers, la crisi da coronavirus potrebbe avere «significativi effetti economici, politici e sociali nel lungo termine».
Le misure di contenimento della pandemia hanno travolto la domanda e l’offerta interne. Il forte calo dei prezzi delle materie prime, l’interruzione delle catene del valore globali, il crollo del turismo e il calo delle rimesse, hanno creato ulteriori tensioni. Ungheria e Polonia, e tutta l’Europa centrale, hanno subìto soprattutto le conseguenze, gravi e immediate, del blocco della catena del valore.
L’esposizione dell’economia ungherese al commercio globale (con esportazioni e importazioni che ammontano a oltre il 190% del Pil) la rende più vulnerabile a crisi come quella attuale. Sono rimasti chiusi a lungo tutti i grandi stabilimenti dell’industria automobilistica, che vale il 28% della produzione manifatturiera (con inevitabili ricadute anche sull’occupazione): si calcola che un mese di fermo valga lo 0,4% del Pil magiaro annuo. Il governo di Budapest è intervenuto ordinando alle banche di aiutare le famiglie e le imprese, con una moratoria sui mutui e con tassi di favore. Mentre per le attività legate al turismo e per le imprese in difficoltà sono previsti sgravi fiscali. La fase due è già iniziata ma nel 2020 «il Pil dell’Ungheria dovrebbe - scrive la Bers - diminuire del 3,5% per poi riprendersi con un +4% nel 2021».
La Polonia può fare affidamento su un mercato interno più grande ma ha visto crollare la domanda dei suoi prodotti in Europa e in particolare in Germania (che assorbe quasi il 30% delle esportazioni polacche totali). È emersa inoltre evidente la debolezza delle microimprese che rappresentano il 38% dell’occupazione totale: in gran parte lavoratori autonomi senza contratto a tempo indeterminato, attivi principalmente in servizi che hanno dovuto chiudere. Il governo polacco, assistito dalla Banca centrale, ha messo in campo uno scudo anti-crisi per un valore vicino al 15% del Pil, concentrandosi sulla protezione del lavoro, sulla liquidità delle aziende oltre che sul sistema sanitario. Anche per la Polonia «il calo del Pil nel 2020 - scrive la Bers - potrebbe essere limitato al 3,5%, con una ripresa del 4% nel 2021».
Orban ha ottenuto i pieni poteri per affrontare l’emergenza virus, accentuando la deriva antidemocratica dell’Ungheria e scontrandosi di nuovo con l’Unione europea. Ma teme la crisi economica. Nei suoi dieci anni di governo è riuscito a risollevare l’economia nazionale, facendone un elemento determinante per la propaganda nazionalista e per le sue (schiaccianti) vittorie elettorali: la crisi economica ha colpito il Paese solo nel 2012, poi il Pil è cresciuto quasi del 4% all’anno.
La destra polacca ha tentato fino all’ultimo di non rinviare le elezioni presidenziali, che dovevano tenersi lo scorso weekend, per sbaragliare un’opposizione ridotta al lockdown. Ma i dubbi di Kaczynski iniziano ora: la Polonia non ha conosciuto la recessione nemmeno durante la grande crisi finanziaria internazionale e da quando la destra radicale ha riconquistato il governo, nel 2015, l’economia ha continuato a correre a ritmi medi superiori al 4% all’anno.
«Questo non è il momento di impegnarsi nel nazionalismo economico e nel protezionismo, ma un momento per plasmare un futuro migliore attraverso l’impegno internazionale per il libero scambio, le politiche ambientali e la cooperazione economica», spiega l’economista capo della Bers, Beata Javorcik. Parole rivolte a Usa e Cina, ma anche all’Ungheria di Orban e alla Polonia di Kaczynski.