Non c’è bisogno di semplificazioni annacquate, ora burocrazia zero
Ci sono rischi che il Paese non può permettersi con il decreto semplificazioni annunciato dal premier Conte. Nella fase 3 l’Italia si gioca la sopravvivenza e il futuro. Già il nome di questo decreto non è originale, non dà l’idea di una fase straordinaria di ricostruzione. Piuttosto cela l’insidia di ripetere decine di semplificazioni annacquate o solo annunciate dai governi negli ultimi venti anni. Ma il governo su questo si gioca tutto.
Quel che serve è un azzeramento di tutta la burocrazia dannosa alla crescita del Paese. Bisogna disboscare pesantemente. Se riforme ci saranno nei prossimimesi nonprossimi mesi non possono partire dallo status possono partire dallo status quo di una burocrazia che frena il Paese da 30 anni. Non bastano limatine al codice appalti o alla conferenza di servizi.
Seconda partenza negativa:l’art. 103 del Dl Cura Italia ha di fatto mandato in letargo una Pa che già prima si muoveva allo sportello come un bradipo. Il cambio di passo deve cominciare da qui e coinvolgere le responsabilità dei singoli. Basta scioperi delle firme. Il danno erariale va imputato non a chi fa, ma a chi non fa. È un salto da fare, gli architetti del diritto si ingegnino perché fra le regole da rispettare entrino i tempi. Per gli investimenti pubblici e privati.
Bisogna passare dalla cultura della procedura a quella del risultato, come a Genova. Individuare 50 opere da avviare subito e finire in tempi certi. Il governo deve uscire dal giochino di stanziare decine di miliardi di competenza nel lungo periodo e poi frenare la cassa, 80 miliardi stanziati per il Fondone investimenti in 25 anni e poi qualche centinaio di milioni di cassa per quest’anno.
Servono risorse certe da subito a 3-5 anni e poi rendiconti che quelle risorse si sono tradotti in spesa effettiva. Si usino tutti i fondi nazionali e Ue, compreso il Mes senza condizioni, compresi i fondi strutturali da riprogrammare senza indugi. Si usino tutte le risorse private movimentabili, garantendo un quadro di regole stabili, definendo una regolazione tariffaria e controlli rigorosi su manutenzione e lavori alle concessioni (non abbandonandole), aprendo una stagione di project financing non limitata a opere fuori della programmazione pubblica.
Tentennare non è ammesso. Ai commissari chiamati a realizzare le opere si deve dare il compito di realizzarle entro un linite di tempo. I pareri richiesti si danno in una settimana, lavorando giorno e notte. Tutti devono partecipare alla straordinarietà, cominciando ad accelerare le opere già in corso.
Infine, le imprese. Dopo anni di frenata degli appalti pubblici, sono state sottoposte a un processo di selezione drammatico. Hanno bisogno di un piano certo. E non si può ripetere l’errore che si fece coni consorzi Ave con la legge obiettivo: scegliere dieci o venti imprese più consolidate ed area loro tutti i lavori (si fece con i requisiti molto mirati del general contractor). Quell’errore ha condannato la legge obiettivo e le ha tolto il consenso unanime di cui oggi un piano di ricostruzione ha bisogno. Oggi, per altro, quella strada non sarebbe praticabile perché venti imprese di quella tradizione non ci sono più. Allora bisogna aprire e innovare. Alle quattro o cinque imprese rimaste bisogna aggiungere le medie imprese che hanno dimostrato di saper lavorare bene, bisogna farle crescere, ammettere igeneralc on tract orche vengono dall’ impiantistica e dall’industria. È da discutere se possa servire anche qualche impresa europea ben selezionata che venga a lavorare in Italia con manodopera italiana (ovviamente nel rispetto della reciprocità). Non è un problema formale di Antitrust e di concorrenza. Il problema è ricreare un settore in Italia ampio e forte, facendo crescere chi è in grado di farlo, sotto lo stimolo di regole, incentivi e concorrenza sani. Solo in questo modo, superando tutti i formalismi ma anche le diffidenze di chi rischia di essere escluso a priori, il “modello Genova” potrà diventare un “modello Italia”.