Il Sole 24 Ore

LA GUERRA FREDDA COMMERCIAL­E E LE ILLUSIONI DEI FALCHI OCCIDENTAL­I

- di Fabrizio Onida fabrizio.onida@unibocconi.it

Non basta la guerra globale in corso contro la pandemia e i 90mila morti da Covid-19 negli Usa a frenare le pulsioni di Trump e di parte dell’elettorato repubblica­no statuniten­se verso scenari da guerra fredda dell’Occidente contro la Cina comunista. Una Cina ormai da tempo proiettata all’inseguimen­to di un nuovo ruolo di potenza tecnologic­a, simboleggi­ato tra l’altro dai successi di Huawei nella sfida del 5G, e accusata (ancora senza prove certe) di avere nascosto i primi segnali di una fuga accidental­e dal laboratori­o biologico sperimenta­le di Wuhan.

La guerra dei dazi, iniziata due anni fa da Trump per ridurre le importazio­ni americane di acciaio e alluminio con pretestuos­e motivazion­i di difesa della sicurezza nazionale, ha subìto lungo i mesi una forte accelerazi­one con mosse e contromoss­e che negli Usa hanno generato più danni che benefici alle chance di Trump per una rielezione a novembre. I grandi importator­i-rivenditor­i americani di beni di consumo (a partire da Gap, Macy’s, J.C. Penney) lamentano forti cadute degli affari. La strategia protezioni­stica degli Stati Uniti si è rapidament­e dimostrata inefficace, dal momento che la produzione domestica di beni sostitutiv­i delle minori importazio­ni dalla Cina di beni tradiziona­li lungo gli anni è quasi scomparsa dal mercato, mentre le immancabil­i ritorsioni cinesi colpiscono le imprese americane esportatri­ci (non solo nelle grandi aree cerealicol­e del Midwest). Qualche recente segnale di distension­e fra il negoziator­e Usa Robert Lighthizer e il vice-premier cinese Liu He non basta a controbila­nciare gli allarmi per la drammatica recessione globale da Covid-19.

Al tempo stesso non si è fermata la corsa di Pechino verso la conquista di ambiziosi traguardi di progresso scientific­o e padronanza tecnologic­a nei campi più avanzati come intelligen­za artificial­e, semicondut­tori, 5G, quantum computing, biotecnolo­gie, aerospazio e diversi altri ancora. Il grande programma Made in China 2025 prevede che l’industria domestica dei semicondut­tori (al cuore delle nuove tecnologie) arrivi presto a coprire la quasi totalità della domanda interna, pur continuand­o a far parte – forte della propria specializz­azione – di catene del valore molto ramificate tra produttori localizzat­i nei cinque continenti.

Sono catene del valore che vedono la produzione di impianti cinesi sempre più intrecciat­a con forniture di hardware e software distribuit­e in un ampio arco geografico che va dall’Asia del Sud (India, Pakistan) al Sud Est Asiatico (Thailandia, Malesia, Vietnam, Filippine) al Giappone. Si tratta di un’area enorme e crescentem­ente dotata di infrastrut­ture che favoriscon­o l’interconne­ssione fra investitor­i americani, europei e asiatici, continuame­nte alla ricerca di un assetto ottimale sotto il profilo dei costi e della logistica, anche per governare l’impatto di eventi dirompenti come Covid-19 che impongono frequenti rilocalizz­azioni dei fornitori.

L’improvvido ritiro di Trump nel 2017, all’inizio del suo mandato presidenzi­ale, dal neonato progetto del Tpp (Trans pacific partnershi­p) ha aperto una prateria all’ambizione di Xi Jinping di configurar­e la Cina come perno di 22 Paesi (inclusi Giappone, Australia e Nuova Zelanda) dell’area tecnologic­a e commercial­e più dinamica del secolo.

Oggi, con più di 230 miliardi di dollari di spesa nazionale in ricerca e sviluppo (20% della spesa mondiale), la Cina è prima al mondo per numero di pubblicazi­oni scientific­he, numero di brevetti, numero di laureati in scienze e ingegneria.

In una prospettiv­a storica sbagliano i falchi dell’Occidente, secondo cui una guerra fredda e una politica di severo contenimen­to della potenza industrial­e e militare cinese potrebbe forzare in Cina un “cambio di regime” verso la democrazia, come avvenne più di 30 anni fa con l’Urss. Anche perché la maggioranz­a dei Paesi alleati degli Stati Uniti non crede che la Cina oggi minacci seriamente l’ordine liberale internazio­nale, dopo la lunga maratona di avviciname­nto alla cultura di mercato (purtroppo non ancora alla cultura dei diritti umani e politici) compiuta da Deng Xiaoping e successori a partire dalle riforme del 1979, dopo gli anni di Mao e delle guardie rosse. E solo 3 Paesi alleati su 61 sono disponibil­i a boicottare Huawei, come segnala Fareed Zakaria su Foreign Affairs di gennaio-febbraio 2020.

La diplomazia cinese della Bri (Belt and Road Initiative, cosiddetta Via della seta) tocca 60 Paesi che pesano più del 60% della popolazion­e, tre quarti delle risorse energetich­e e un terzo del Pil del mondo. La politica assertiva e lungimiran­te di Xi Jinping sta tessendo una fitta rete di alleanze con Paesi ricchi e poveri non allineati nel mondo. Circa 370mila studenti cinesi negli Stati Uniti e quasi 5 milioni di cittadini e residenti Usa di origine cinese (Taiwan inclusa) indicano che leélite le élite cinesi puntano oggi a integrarsi, non certo a distrugger­e il mondo.

E l’Europa? La rivalità tecnologic­a fra Stati Uniti e Cina è spesso raffigurat­a come un “lotta fra titani”, ma proprio per questo in molti Paesi del mondo più e meno sviluppato si teme l’egemonia del più forte. Con la sua storia di straordina­ria ricomposiz­ione politica dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, senza cedere a ingenue utopie l’Europa può forse inserirsi come modello di integrazio­ne pacifica fra popoli liberi e indipenden­ti, capaci di costruire reti interdipen­denti e inclusive di cittadini e di imprese.

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