UNA TRIANGOLAZIONE PER GENERARE LIQUIDITÀ
« L’inverno è lastricato di buone intenzioni » : così scriveva Flaiano nel « Diario degli errori » . Cogliere l’opportunità, in questo momento drammatico, per tradurre le buone intenzioni in decisioni capaci di produrre effetti di mediolungo periodo è il monito che si può ricavare dalla lapidaria osservazione del celebre autore.
E, allora, in poche battute ci sembra di poter osservare questo. Tra poco, tra pochissimi mesi se non giorni le imprese, specialmente quelle micro, piccole e medie, avranno bisogno di liquidità perché è innanzitutto la liquidità che ha risentito del lockdown.
Pur non potendosi escludere, in via di principio, una significativa ripresa dei consumi quale reazione all’imposizione della loro temporanea cessazione, sembra più realistico far emergere e occuparsi di quello che ci sembra essere il principale problema: la liquidità delle imprese come presupposto per la loro continuità aziendale e la loro capacità di “essere nel mercato”, alimentandolo.
Ma dove e come si trova la liquidità per le imprese?
Ebbene, scontata una certa dose di semplificazione, la liquidità è ricavabile o dal “mercato”, cioè “privatamente”, o da un intervento di sostegno dello Stato (e delle sue articolazioni) e, dunque, “pubblico”: o da combinazioni tra l’uno e l’altro. In entrambi i casi occorre investire: prima ancora, occorre, di nuovo, trovare la liquidità per farlo.
C’è però, come da tempo si sottolinea, un dato: lo Stato (e le sue articolazioni) è debitore delle imprese per “forniture” (in ( in senso lato) già effettuate e non ancora pagate. Così, si prosegue, si potrebbe, come pure si è immaginato in passato (ma senza successo), compensare il debito fiscale di quelle imprese con il credito derivante dalle forniture non pagate: questa conclusione pecca di eccessiva semplificazione e non convince perché, per un verso, la riduzione delle entrate fiscali genererebbe una minaccia alla perdurante sostenibilità della spesa pubblica, del mantenimento, cioè, degli impegni di spesa assunti dallo Stato (e ( e dalle sue articolazioni), rischiandosi di sostituire il debito verso le imprese con un (nuovo) debito verso la collettività; e, per l’altro, le imprese non beneficerebbero direttamente di liquidità “aggiuntiva”, essendo l’incremento di liquidità tutto calibrato (e ( e limitato) alla soppressione del costo fiscale, “liberando” corrispondente liquidità.
Ecco perché immaginiamo di suggerire un’altra via, consapevoli di ciò che la storia insegna e correggendo le inefficienze emerse nell’esperienza pregressa: cedere alle banche e agli intermediari professionali i crediti delle imprese verso lo Stato (e verso le sue articolazioni) a un prezzo inferiore al valore nominale; e, onde scoraggiare il ribaltamento di questo esborso sui clienti retail e sulle (altre) imprese, prevedere una garanzia (gratuita) ( gratuita) dello Stato (o di enti territoriali; diciamo, per brevità accettando qualche improprietà lessicale: un ente pubblico) su altri crediti (segnatamente ( segnatamente quelli incerti in ordine all’adempimento) dell’intermediario acquirente, consentendone una riclassificazione. Insomma: l’impresa incassa il prezzo (scontato) ( scontato) del credito; l’acquirente diviene titolare di un credito verso un ente pubblico, benché non immediatamente esigibile; l’ente pubblico non subisce alcuna riduzione di “cassa”.
Essendo noi del tutto contrari alle demagogiche politiche delle misure non mirate, riteniamo che nella selezione delle imprese ammesse a una operazione siffatta si dovrebbero valorizzare diversi indici, compresi quelli connessi alla sostenibilità dell’azione imprenditoriale: non tanto e non solo fissando in atti ( eteronomi: dalle leggi alle determinazione della pubblica amministrazione) parametri, la cui scelta sarebbe inevitabilmente arbitraria e soffrirebbe di rigidità, quanto, piuttosto, esponendo l’impresa alla misurazione di quella sostenibilità (di cui ormai si parla con convinzione crescente sebbene ancora lontana da una definizione univoca) da parte di chi con l’impresa “con- vive” e, cioè, del contesto sociale nel quale si sviluppa il progetto imprenditoriale.
Questa misurazione potrebbe alimentarsi con, e fissarsi in, un patto, frutto di autonomia e flessibile, tra Stato e comunità territoriale, da un lato, e imprese, micro, piccole e medie, dall’altro; patto, reso pubblico ed accessibile a tutti, che dovrebbe avere, quale contenuto minimo, non solo il rispetto della legalità ma anche unset un set di impegni (almeno) sul trattamento del lavoro, sulle scelte ambientali, sulla diversità, sull’inclusione e così via; patto, poi, la cui esecuzione sarebbe vigilata dagli interessati, dalla comunità stessa, monitorando, entro un confine ampio ma definito nel patto, l’efficienza produttiva e sostenibile ( per quella stessa comunità) dell’impresa; monitoraggio che si potrebbe veicolare con un flusso di informazioni “visibili” ad ognuno on line, tramite piattaforme dedicate.
Chissà se, tornando a Flaiano, il dramma dell’oggi stimoli il coraggio necessario per superare le intenzioni e, finalmente, scegliere: decidere, innovando, sul nostro futuro.