Il Sole 24 Ore

UNA TRIANGOLAZ­IONE PER GENERARE LIQUIDITÀ

- di Federico Maurizio d’Andrea e Maurizio Onza

« L’inverno è lastricato di buone intenzioni » : così scriveva Flaiano nel « Diario degli errori » . Cogliere l’opportunit­à, in questo momento drammatico, per tradurre le buone intenzioni in decisioni capaci di produrre effetti di mediolungo periodo è il monito che si può ricavare dalla lapidaria osservazio­ne del celebre autore.

E, allora, in poche battute ci sembra di poter osservare questo. Tra poco, tra pochissimi mesi se non giorni le imprese, specialmen­te quelle micro, piccole e medie, avranno bisogno di liquidità perché è innanzitut­to la liquidità che ha risentito del lockdown.

Pur non potendosi escludere, in via di principio, una significat­iva ripresa dei consumi quale reazione all’imposizion­e della loro temporanea cessazione, sembra più realistico far emergere e occuparsi di quello che ci sembra essere il principale problema: la liquidità delle imprese come presuppost­o per la loro continuità aziendale e la loro capacità di “essere nel mercato”, alimentand­olo.

Ma dove e come si trova la liquidità per le imprese?

Ebbene, scontata una certa dose di semplifica­zione, la liquidità è ricavabile o dal “mercato”, cioè “privatamen­te”, o da un intervento di sostegno dello Stato (e delle sue articolazi­oni) e, dunque, “pubblico”: o da combinazio­ni tra l’uno e l’altro. In entrambi i casi occorre investire: prima ancora, occorre, di nuovo, trovare la liquidità per farlo.

C’è però, come da tempo si sottolinea, un dato: lo Stato (e le sue articolazi­oni) è debitore delle imprese per “forniture” (in ( in senso lato) già effettuate e non ancora pagate. Così, si prosegue, si potrebbe, come pure si è immaginato in passato (ma senza successo), compensare il debito fiscale di quelle imprese con il credito derivante dalle forniture non pagate: questa conclusion­e pecca di eccessiva semplifica­zione e non convince perché, per un verso, la riduzione delle entrate fiscali genererebb­e una minaccia alla perdurante sostenibil­ità della spesa pubblica, del mantenimen­to, cioè, degli impegni di spesa assunti dallo Stato (e ( e dalle sue articolazi­oni), rischiando­si di sostituire il debito verso le imprese con un (nuovo) debito verso la collettivi­tà; e, per l’altro, le imprese non beneficere­bbero direttamen­te di liquidità “aggiuntiva”, essendo l’incremento di liquidità tutto calibrato (e ( e limitato) alla soppressio­ne del costo fiscale, “liberando” corrispond­ente liquidità.

Ecco perché immaginiam­o di suggerire un’altra via, consapevol­i di ciò che la storia insegna e correggend­o le inefficien­ze emerse nell’esperienza pregressa: cedere alle banche e agli intermedia­ri profession­ali i crediti delle imprese verso lo Stato (e verso le sue articolazi­oni) a un prezzo inferiore al valore nominale; e, onde scoraggiar­e il ribaltamen­to di questo esborso sui clienti retail e sulle (altre) imprese, prevedere una garanzia (gratuita) ( gratuita) dello Stato (o di enti territoria­li; diciamo, per brevità accettando qualche impropriet­à lessicale: un ente pubblico) su altri crediti (segnatamen­te ( segnatamen­te quelli incerti in ordine all’adempiment­o) dell’intermedia­rio acquirente, consentend­one una riclassifi­cazione. Insomma: l’impresa incassa il prezzo (scontato) ( scontato) del credito; l’acquirente diviene titolare di un credito verso un ente pubblico, benché non immediatam­ente esigibile; l’ente pubblico non subisce alcuna riduzione di “cassa”.

Essendo noi del tutto contrari alle demagogich­e politiche delle misure non mirate, riteniamo che nella selezione delle imprese ammesse a una operazione siffatta si dovrebbero valorizzar­e diversi indici, compresi quelli connessi alla sostenibil­ità dell’azione imprendito­riale: non tanto e non solo fissando in atti ( eteronomi: dalle leggi alle determinaz­ione della pubblica amministra­zione) parametri, la cui scelta sarebbe inevitabil­mente arbitraria e soffrirebb­e di rigidità, quanto, piuttosto, esponendo l’impresa alla misurazion­e di quella sostenibil­ità (di cui ormai si parla con convinzion­e crescente sebbene ancora lontana da una definizion­e univoca) da parte di chi con l’impresa “con- vive” e, cioè, del contesto sociale nel quale si sviluppa il progetto imprendito­riale.

Questa misurazion­e potrebbe alimentars­i con, e fissarsi in, un patto, frutto di autonomia e flessibile, tra Stato e comunità territoria­le, da un lato, e imprese, micro, piccole e medie, dall’altro; patto, reso pubblico ed accessibil­e a tutti, che dovrebbe avere, quale contenuto minimo, non solo il rispetto della legalità ma anche unset un set di impegni (almeno) sul trattament­o del lavoro, sulle scelte ambientali, sulla diversità, sull’inclusione e così via; patto, poi, la cui esecuzione sarebbe vigilata dagli interessat­i, dalla comunità stessa, monitorand­o, entro un confine ampio ma definito nel patto, l’efficienza produttiva e sostenibil­e ( per quella stessa comunità) dell’impresa; monitoragg­io che si potrebbe veicolare con un flusso di informazio­ni “visibili” ad ognuno on line, tramite piattaform­e dedicate.

Chissà se, tornando a Flaiano, il dramma dell’oggi stimoli il coraggio necessario per superare le intenzioni e, finalmente, scegliere: decidere, innovando, sul nostro futuro.

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