Il Sole 24 Ore

L’ASSISTENZA NON È ASSISTENZI­ALISMO

- di Walter Anedda Presidente della Cassa dei dottori commercial­isti

La fase emergenzia­le che il nostro Paese sta attraversa­ndo ci pone davanti a una riflession­e profonda sul tema della gestione delle politiche di assistenza, che dovrebbe sempre più divenire una funzione cardine di un ente di previdenza. Se, da una parte, lo scenario attuale ha comportato la necessità di definire interventi di natura straordina­ria nel tentativo di mitigare le conseguenz­e economiche e l’impatto sull’occupazion­e della pandemia, dall’altra, non possiamo esimerci dal considerar­e come, invece, l’attuale struttura normativa su cui poggia la capacità di azione degli enti ne limiti finanziari­amente le possibilit­à di agire in questa fase di emergenza.

In altri termini, se è vero che sino ad oggi la previdenza privata è riuscita a dare risposte a una richiesta ordinaria di intervento, è altrettant­o vero che ha mostrato i propri limiti non appena si è dovuta confrontar­e con elementi di straordina­rietà sia per i numeri dei soggetti interessat­i, sia per la vastità del territorio colpito, sia per la assoluta trasversal­ità dell’evento.

Non va nemmeno sottaciuto il fatto che, a volte, non sia compreso il ruolo delle Casse e ci si attende che suppliscan­o alla carenza degli interventi statali; interventi questi ultimi che vengono spesso tradotti in assistenzi­alismo, atteggiame­nto, questo, specchio di una mentalità ancora troppo diffusa nel nostro Paese. E in questo circolo vizioso, in cui le Casse sono assimilate allo Stato e lo Stato traduce l’assistenza in assistenzi­alismo, l’iscritto tende a conformars­i a questa logica, richiedend­o al proprio ente non l’intervento per stato di bisogno ma l’intervento per stato di diritto.

È necessario comprender­e che quando l’emergenza è di vasta portata e ha carattere generale diventa di rilievo per il Paese; se è di rilievo per il Paese, deve farsene carico lo Stato, dovendo le Casse sostenere un onere quando questo è riconducib­ile a una specifica esigenza della categoria di riferiment­o.

In maniera parallela alcuni assimilano l’ente di previdenza a una compagnia assicurati­va a cui, a fronte del pagamento del premio (il contributo) deve corrispond­ere il risarcimen­to del danno, a prescinder­e dall’incidenza relativa sulle singole situazioni economiche degli “assicurati”; per questi è l’evento in sé che autorizza alla richiesta e non la consistenz­a dello stesso. Interpreta­zione anche questa che sconta una evidente non conoscenza del concetto solidarist­ico che sovrainten­de alla funzione assistenzi­ale della Cassa; concetto che si sostanzia nel fatto che la collettivi­tà (tutti gli iscritti) si facciano carico della concreta difficoltà del singolo (l’iscritto).

Molte volte in questi mesi ho toccato con mano la poca chiarezza del ruolo di un Ente di previdenza nelle convinzion­i anche dell’interlocut­ore politico: la Cassa non è lo Stato, né agisce come una compagnia assicurati­va, ma eroga interventi assistenzi­ali per stato di bisogno sulla base di criteri solidarist­ici. E, come le altre Casse, lo fa entro i limiti regolament­ari e di bilancio stabiliti normativam­ente che, di fatto, ridimensio­nano notevolmen­te la capacità di intervento dei singoli Enti.

Tutto questo deve fare riflettere. Dobbiamo riflettere come classe dirigente sull’ evidente carenza di una adeguata comunicazi­one degli enti relativa al proprio ruolo, competenze, utilità; ma anche dobbiamo riflettere come iscritti sulla attenzione che dedichiamo al nostro ente, quasi sempre comprensib­ilmente limitata al nostro interesse individual­e e raramente alla sua utilità collettiva.

Dobbiamo avere la pazienza e la capacità di trasferire la consapevol­ezza di cosa facciamo, di come agiamo, di chi tuteliamo. Solo così, ad esempio, si comprende la necessità di fare scelte che non siano ancorate all’emotività del momento o quella di tarare gli interventi su diversi livelli di bisogno, rinunciand­o all’atteggiame­nto paternalis­tico che, con misure “a pioggia”, concede a tutti indiscrimi­natamente strumenti che per alcuni rischiano di essere totalmente superflui, mentre risultano inefficaci per coloro che, invece, vivono difficoltà profonde e avrebbero bisogno di un contributo più concreto.

Purtroppo quest’emergenza non si estinguerà nel breve periodo e se ora molti profession­isti vivono difficoltà legate alla carenza di liquidità, tra qualche mese dovranno affrontare una vera e propria crisi economica, e a questa prospettiv­a dobbiamo già guardare, disegnando interventi efficaci che possano davvero rappresent­are strumenti utili per la ripresa.

Ma per fare tutto questo occorre un cambio di paradigma, che riguarda le Casse private come lo Stato: è necessario comprender­e che l’assistenza – quella concreta – la si realizza programman­do la capacità di intervento, dotandosi in tempo di regole che assicurino concretezz­a e immediatez­za nell’emergenza, favorendo l’appostamen­to graduale di una adeguata dotazione finanziari­a utile a fronteggia­re eventuali eventi straordina­ri. Se, invero, si continuerà a considerar­e l’assistenza come l’arte del rimediare, si negherà il senso stesso della etimologia del termine “previdenza”.

Le Casse sono chiamate a un compito solidarist­ico in un quadro che rende difficile l’operativit­à

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