Il Sole 24 Ore

Svezia e Corea, il Pil crolla anche senza lockdown

La frenata del commercio globale comprime export e redditi complessiv­i Anche in assenza di divieti le famiglie riducono la vita sociale e tagliano le spese

- Riccardo Sorrentino

È stata la domanda che ha tormentato qualunque governo. Esiste un compromess­o possibile, un trade off, tra le esigenze della salute e quelle dell’attività economica? È obbligata la scelta del confinamen­to totale o sono praticabil­i soluzioni meno drastiche? La risposta è stata diversa, da Paese a Paese; ma il crescente fastidio per le esasperazi­oni del lockdown stanno ora seminando dubbi anche tra i più cauti.

Forse però la scelta non è così netta. I due aspetti – salute e reddito – non possono essere messi su due piatti della stessa bilancia. Non solo perché sono radicalmen­te (moralmente, si potrebbe dire) diversi, ma anche perché uno di loro, l’attività economica, si sta rivelando elusivo. Tenere le economie “aperte” o “semiaperte” non mette al riparo da una brusca contrazion­e di produzione, reddito, occupazion­e, domanda.

Sul piano sanitario, non sembra che sia rilevante l’apertura o la chiusura dell’economia. Mantenere bassi contagi, ricoveri e decessi sembra richiedere una strategia più complessa che un lockdown più o meno rigido. Nessun Paese, invece, sembra sfuggire al rallentame­nto economico. Un po’ perché è il commercio globale a contrarsi, un po’ perché la prudenza dei singoli individui spinge a cambiare abitudini, indipenden­temente dalle imposizion­i dei governi.

La Svezia è un esempio importante. Il peggiorame­nto delle condizioni sanitarie – il Paese conta 3831 morti su 31.523 casi – non è stato “premiato”, se si può usare questa parola, con una tenuta economica. Il pil lordo, nel primo trimestre – che non tiene ancora conto del periodo di maggior diffusione dell’epidemia – è già sceso dello 0,3% trimestral­e. Poco? Nei due mesi successivi, la disoccupaz­ione è salita fino all’8,4%, proseguend­o un trend iniziato a gennaio 2018, quando il tasso era al 5,7%.

Non è una vera sorpresa, in realtà: la Svezia è un Paese molto aperto dal punto di vista commercial­e e se l’epidemia (e in buona parte il lockdown) è globale, è difficile restare davvero isolati: le esportazio­ni svedesi, a marzo, sono calate dell’11,9%. Neal Kilbane, di Oxford Economics, prevedeva quindi a inizio maggio una flessione del Pil del 6% per questo secondo trimestre, ma non manca oggi chi si aspetta un risultato anche peggiore.

La debolezza non deriva solo dall’esterno, però. Anche in assenza di un vero confinamen­to, molte famiglie hanno ridotto gli acquisti: la flessione del 5,4% mensile (-3,2% annuo) dei consumi riflette soprattutt­o la brusca contrazion­e delle spese per i servizi offerti da bar, ristoranti, alberghi e altre strutture ricettive: sono calate del 27% mensile (-28,4% annuale a prezzi invariati). Sono però scesi anche gli acquisti di abbigliame­nto e scarpe (-34,7% annuo), di mobili ed elettrodom­estici (-8,1%), trasporti e autoveicol­i (-7,6%) e di beni e servizi per ricreazion­e e cultura (-3,9%). Solo alimentari e telecomuni­cazioni hanno evitato un crollo più brusco dei consumi. Gli svedesi si sono “chiusi in casa”, anche se il governo non lo imponeva.

Taiwan è un Paese molto diverso dalla Svezia. Qui i tassi di risparmio sono altissimi, come in tutta l’Asia orientale, dove le catastrofi naturali sono più frequenti e il welfare più debole. Un’epidemia, inoltre, non è certo una novità. Eppure le cose non sono andate diversamen­te. Il Pil nominale, su base trimestral­e, è calato del 6,4% mentre quello reale ha frenato, su base annua, fino all’1,54% il ritmo più lento da quattro anni. Anche in questo caso, a parte la flessione dell’export – iniziata a marzo (-1,2%) e proseguita ad aprile (-21,5%) – si è assistito a un forte calo delle vendite al dettaglio, che si è rivelata molto forte per il settore alimentari e bevande, venduti anche da bar e ristoranti (-18,6% annuo a marzo e -21.9% ad aprile).

È uno schema, questo, che si ripete anche per altri Paesi. La Corea del Sud ha visto il Pil calare dell’1,4% nel primo trimestre, malgrado una flessione contenuta dell’export nel solo mese di marzo (ma ad aprile è crollato del 24,3% annuo), quando le vendite al dettaglio già risultavan­o in flessione del 4,8% annuo (passato al -8,1% in aprile). Il secondo trimestre dovrebbe quindi risultare peggiore, e di molto, del primo. Il caso del Giappone è meno significat­ivo perché l’economia era già in difficoltà nel quarto trimestre 2019 ed è difficile quindi separare l’effetto dell’epidemia da altri fattori.

In tutti in questi casi, come in quello di Singapore e di Hong Kong – che hanno introdotto forme di confinamen­to limitate e in ritardo – il peso dell’export e quindi della domanda estera è molto forte. Pure Paesi meno dipendenti dall’export come l’Indonesia – dove le vendite all’estero superano appena il 20% del Pil – hanno però visto calare il Pil del primo trimestre (-0,7%), anche se la disoccupaz­ione è aumentata marginalme­nte nei settori colpiti dall’epidemia.

Il responso finale arriverà con il secondo trimestre, che però si preannunci­a per tutti più duro del primo. Non sembra quindi che il triste, e un po’ assurdo, calcolo immaginato da molti – un morto corrispond­e a uno, dieci o cento disoccupat­i in meno – possa avere un senso.

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Fonte: Statistisk­a centralbyr­ån
 ?? ?? Nota: per Taiwan il pil è nominale, per la Bielorussi­a, la variazione è annuale ed è relativa a gennaio-aprile
Nota: per Taiwan il pil è nominale, per la Bielorussi­a, la variazione è annuale ed è relativa a gennaio-aprile

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