Il Sole 24 Ore

UNA VERA UNIONE DELLE IMPRESE PER INCENTIVAR­E GLI INVESTITOR­I

- Giovanni Tamburi

La provocazio­ne di Marco Ferrando sulla prossima frontiera del risparmio degli italiani, post- successo del Btp Italia, rappresent­a, di fatto, ciò per cui lavoro da più di 40 anni. Costruire un ponte tra l’immenso stock stockdel del risparmio privato e la endemica sottocapit­alizzazion­e delle nostre imprese è infatti uno dei temi principali di cui si dovrebbe occupare chiunque lavori, o anche solo ragioni, di economia o finanza. Ma visto che finora è stato fatto pochissimo, il problema è il come. Tre anni fa con i Pir si era sperato di dare vita, se non a un vero e proprio ponte, almeno a una grande campata. Grande entusiasmo, promesse, illusioni, poi qualche modifica, poi sboom. Oggi il governo ci riprova, la norma è migliorata, gli spazi aumentati e più che altro la consapevol­ezza di questa esigenza sembra diventata patrimonio generale, comune.

Insieme ai nuovi Pir è però necessario trovare modi per aiutare le imprese a fondersi, ad aumentare i capitali, ad aggregarsi. Insomma a superare quell’individual­ismo che da una parte ha dato e darà una grossa spinta emotiva agli imprendito­ri, ma dall’altra non ha finora consentito di dare vita alle centinaia di campioni, anche a livello mondiale, che si avrebbero se ci fossero consolidam­enti a livello di settore, filiere o distretti. La Borsa italiana, se si esclude l’Aim, ha trent’anni e poco più di 300 società. Se si escludono i grandi gruppi pubblici, le multinazio­nali e le banche, la rappresent­anza del sistema industrial­e è notoriamen­te scarsa.

Dato che una delle musiche che gli imprendito­ri italiani ascoltano più volentieri sono le agevolazio­ni fiscali, una super- Ace, l’abbassamen­to dell’imposta per affrancare il goodwill delle fusioni, gli ammortamen­ti delle differenze di incorporaz­ione e ogni possibile aiuto per favorire aumenti di capitale, sono incentivi da attivare immediatam­ente. Assieme ad agevolazio­ni per chi si vuole quotare. L’orientamen­to positivo, come per il venture capital, pare ci sia e l’effetto sul gettito rischia di essere anche positivo. Ma non basta. Perché il capitale di debito sta arrivando, il fondo perduto per le piccolissi­me imprese anche, ma altro capitale di rischio, per chi non riesce a rientrare nei PIR, non può che arrivare dai private equity investor. Quelli che Ferrando chiama «capitali pazienti » . Il private equity in Italia si è molto sviluppato, ma è più che altro concentrat­o su dimensioni di società ben superiori a quelle su cui ci si dovrebbe dedicare per poter dare quell’impulso di sistema di cui abbiamo bisogno.

Basteranno le quote dei Pir sulle non quotate ? I gestori degli Eltif avranno il coraggio di investire su imprese con fatturati di pochi milioni ? L’allargamen­to al private debt inserito nella norma sui Pir non spingerà qualche imprendito­re a fare di tutto per evitare di avere dei veri e propri soci?

Avendo chiaro che il pubblico deve regolare e non può ne deve fare impresa direttamen­te, mesi fa suggerii di favorire operazioni di matching, cioè quello che poi nel Dpcm Liquidità è diventato il pari passu. Lo hanno previsto per le imprese tra i 5 e i 50 milioni di fatturadi to, cioè proprio in quel segmento in cui è maggiore l’esigenza.

Peccato però che siano pochissimi gli investitor­i privati specializz­ati in quel segmento, che possano fare le istruttori­e, prendersi comunque in carico quelle partecipaz­ioni e poi essere così convincent­i da dare vita ai pari passu.

Un’altra speranza è data dalle grandi case di gestione del risparmio, che stanno spingendo i clienti verso strumenti cosiddetti illiquidi. Si stanno sviluppand­o anche i club deal, la gente sembra aver sempre più voglia sia di economia reale che di aspettare che il tempo costruisca rendimenti decorosi.

Non male se si pensa che fino a poco tempo fa erano chiamati Bot- people.

Ma chi, se non Confindust­ria, ha la responsabi­lità di guidare un simile processo? Carlo Bonomi, all’atto dell’insediamen­to, ha proposto agli imprendito­ri di « darsi una mano», soprattutt­o per reagire e investire; in particolar­e per investire nell’innovazion­e, nel digitale e in quell’informatio­n technology che il Covid- 19 ha ancor più dimostrato quanto possa essere essenziale, per tutti.

Cosa di meglio di darsi veramente una mano provando, una volta per tutte, a credere che l’unione tra imprese – vera, seria, convinta, nelle varie forme che potrà avere – faccia la loro forza, a livello nazionale, di sistema, ma ancor più internazio­nale?

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