Il bilancio Ue, le nuove sfide e la mina Orban
Pubblichiamo un estratto del nuovo libro dell’ex presidente del Consiglio e leader di Italia Viva Matteo Renzi (La mossa del cavallo. Come ricominciare, insieme. Marsilio pp.224, 16 €. In libreria dal 4 giugno)
Dopo la Brexit e dopo lo shock del coronavirus, Bruxelles necessita di nuovo slancio, in nome di una ripartenza che non si vede ancora all’orizzonte, complici le difficoltà tedesche e francesi, l’instabilità spagnola e la fatica italiana a recuperare il proprio ruolo tra i player dell’Europa che conta.
La Germania vive infatti un momento di grande incertezza, trovandosi in una fase di cambiamento di leadership al governo. A ciò si deve aggiungere un ulteriore elemento in questo anno di svolta: il business model della Germania, focalizzato su una strabiliante crescita dell’export, non funziona più o, quantomeno, non funzionerà come prima, perché è evidente che la Cina – primo mercato per l’export tedesco – non può più reggere i ritmi di crescita del passato, a maggior ragione dopo la tragedia del coronavirus. La Germania, dunque, deve ripensare se stessa e auspico che possa finalmente concretizzarsi quella svolta neokeynesiana che porti Berlino a investire di più sulle infrastrutture interne per affrontare lo squilibrio del surplus commerciale su cui non rispetta le regole europee, indebolendo così le economie degli altri paesi dell’Unione. Segnali di disagio vengono anche dalla Francia, dove pure risiede il più forte leader attualmente in circolazione nel Vecchio continente, Emmanuel Macron (...). La Spagna, infine, ha un esecutivo che sta in piedi per miracolo, con una maggioranza molto risicata (...). Insomma, non sembra questo il tempo propizio per una discussione di ampio respiro sul futuro dell’Europa, sebbene la Brexit avrebbe suggerito, e forse imposto, proprio questo.
C’è un tema in particolare rispetto al quale bisognerebbe tirar fuori tutto il nostro coraggio e su cui invece siamo ancora troppo timidi: il bilancio europeo 2021-2027. La programmazione economica dell’Unione si definisce ogni sei anni e dunque la possibilità di incidere davvero sul funzionamento delle istituzioni comunitarie è limitata a poche e decisive occasioni, tra cui questa in particolare. Non si tratta semplicemente di stabilire la quantità di risorse da destinare all’Unione europea, pur essendo in corso un acceso dibattito sull’ammontare delle cifre dei singoli bilanci nazionali da garantire a Bruxelles: il ’Consiglio vorrebbe che ogni paese versasse annualmente l’1% del suo Pil, mentre il parlamento batte cassa con maggiore determinazione, arrivando a chiedere l’1,3%.
Oggi più che mai, non ritengo sia questo il punto o, almeno, non solo. La vera sfida è capire quali requisiti vadano rispettati per accedere a quel salvadanaio comune che è il bilancio europeo, a cui – giova ricordarlo – l’Italia contribuisce attivamente, mettendo sul piatto ogni anno quasi 20 miliardi di euro e recuperandone soltanto 13. Siamo, dunque, tra coloro che danno più di quanto ricevono e ciò dovrebbe far giustizia di una certa stampa nordeuropea viziata da pregiudizi che si lamenta costantemente del nostro paese, ignorando che comunque aiutiamo l’Europa molto più di quanto questa non aiuti noi. Il problema, però, è l’accesso ai fondi. Siamo disponibili ad aiutare con le risorse del contribuente italiano gli sforzi dei paesi membri dell’Est perché possano migliorare il livello di qualità della vita, ma non siamo disposti – o perlomeno non lo sono io e vorrei che non lo fosse neanche il governo che ci rappresenta – a consegnare quei soldi a chi viola i principi costitutivi dell’appartenenza europea. Così come esiste quella che i tecnici del settore chiamano «condizionalità ex ante» sui temi del bilancio, ossia il principio per cui si deve essere in regola con i parametri macroeconomici per continuare a godere dei finanziamenti europei, sarebbe opportuna una condizionalità ex ante sui valori. L’Ungheria non può utilizzare i fondi del contribuente italiano per costruire un muro che respinge i migranti o per rifiutare la solidarietà alla Sicilia. I siciliani non devono pagare per i cittadini di Budapest se questi non mostrano alcuna volontà di venirci incontro nel gestire i flussi migratori. La solidarietà non può essere in un’unica direzione: o è di andata e ritorno, o non è. Per questa ragione propongo, fin dal 2014, di cambiare le regole del gioco: l’Italia farà la sua parte solo a condizione che i paesi di Visegrád inizino a fare la loro.
Il paradosso è che, mentre ci si aspetterebbe che questo concetto sia condiviso dagli euroscettici, dalla destra di Salvini e Meloni, ossia da chi urla «prima gli italiani!», sono proprio Salvini e Meloni a difendere Orbán a dispetto di questa posizione politica. Fratelli d’Ungheria, dunque, più che Fratelli d’Italia, evidentemente.