Quando la forza economica di Berlino spiazza l’Europa
Europa tedesca o Germania europea? Il dilemma è vecchio quanto l’ultimo grande balzo in avanti che 30 anni fa diede all’Unione prima il mercato e poi la moneta unica, sia pure incompleti. Quel dilemma si ripropone oggi, a riunificazione tedesca ed europea da tempo compiute. Oggi quando, dopo la parentesi delle derive nazionaliste e delle grandi divergenze interne seguite alla crisi del 2008, il flagello del Covid19 rilancia un’Europa a brandelli e in piena recessione, facendole riscoprire l’enorme potenziale della sua integrazione: da non sprecare ma arricchire al massimo per tener testa alla concorrenza di Stati Uniti e Cina. È nata così la svolta del 27 maggio, il possibile principio di un secondo grande balzo in avanti verso un’Unione di nuova generazione che recuperi il valore della sovranità collettiva, ritrovi coesione per rifondare il proprio modello di sviluppo sulle nuove frontiere di digitalizzazione, decarbonizzazione e innovazione, 5G autoctono e intelligenza artificiale, spazio e campioni industriali europei. Il piano Von der Leyen è pronto. Spetta ai Governi decidere, forse già a luglio. A volte però le cifre dicono più di tante parole. L’Europa, che solo tre mesi fa aveva bocciato per troppa prodigalità un bilancio settennale (2021-27) da 1.000 miliardi, sembra pronta ad approvare, sotto il pungolo della Germania di Angela Merkel, quello stesso bilancio da 1.100 miliardi di spese effettive (ma 2.000, 2% Pil Ue, di impegni sulla carta) affiancato da un fondo, Next
GenerationEu, da 750 miliardi e durata 4 anni, per finanziare riforme strutturali e conti sani, debito in testa, investimenti, infrastrutture, sostegni alle imprese, sanità e coesione, utilizzando il bilancio Ue “maggiorato” per raccogliere prestiti da reindirizzare a tutti i Paesi Ue ma soprattutto ai più colpiti dal virus. In totale il bazooka di Bruxelles è di ben 1.850 miliardi: con i 540 già approvati per Mes, Bei e Sure, si sfiorano i 2.400 miliardi. La Bce ha quasi raddoppiato, da 750 a 1.350 miliardi estendendolo a giugno 2021, il programma Pepp di acquisto titoli per l’emergenza Covid. Con il nuovo maxi-piano da 130 miliardi di stimoli e investimenti nella propria economia, dopo quello di marzo e l’alluvione di aiuti di Stato e garanzie alle imprese, la Germania da sola ha finora mobilitato quasi 1.600 miliardi: 250 in più dello scudo anti-virus della Bce per i 19 Paesi euro e solo 250 in meno dello sforzo previsto dalla Commissione Ue per 27 Paesi, durata 4-7 anni. Con un simile elefante in cristalleria, giustamente deciso a bruciare i tempi della ripresa economica e della ristrutturazione verde e digitale del suo modello, anche puntando sulla massa critica del mercato europeo ora che quello cinese è più incerto, fino a che punto Bruxelles potrà garantire che si giochi ad armi pari la partita del rilancio, salvataggio delle imprese malate di Covid e della competitività europea? E fino a che punto il piano Von der Leyen, integrato da manovre nazionali tanto diseguali (il 52% del totale Ue degli aiuti di Stato fin qui versati è tedesco contro il 17% francese e il 15,5 italiano), riuscirà a compensare le diverse potenze di fuoco in campo? Al di là dello shock simmetrico della pandemia, questa è l’eterna storia della cicala e della formica, di chi ha coltivato conti sani, riforme e produttività mettendo il fieno in cascina, e chi invece no e si ritrova bloccato da scarse risorse, crescita e competitività e dalla zavorra del mega-debito. La Germania ha capito che oggi il suo interesse coincide con quello europeo. Per questo l’Europa si muove e profonde aiuti in abbondanza. Sarà però tutta e solo volontaria la scelta se prenderli o no per colmare ritardi accumulati e tanto tempo sprecato. Se quindi alla fine ci sarà una Germania europea o un’Europa tedesca (o niente Europa) dipenderà più da Italia e Francia, i maggiori partner, che da subdoli disegni di Berlino.