Il Sole 24 Ore

Il cervello e lo sviluppo della sua visione

I ratti vengono mandati al cinema per poter migliorare l’intelligen­za artificial­e: alla studio il processo di apprendime­nto dell’invarianza, utilizzato nel machine learning

- Andrea Carobene

Ratti vanno al cinema per migliorare gli algoritmi di intelligen­za artificial­e. Una ricerca condotta alla Scuola Internazio­nale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste ha chiarito, facendo vedere a dei ratti neonati alcuni film, un processo di formazione delle cellule cerebrali sul quale gli scienziati si interrogav­ano da oltre 50 anni, e che potrebbe anche potenziare le tecniche di machine learning.

L’esperiment­o è stato condotto da Davide Zoccolan, direttore del Laboratori­o di neuroscien­ze visive alla Sissa, che, assieme a Giulio Matteucci, ha sottoposto diciotto roditori, di età compresa fra 14 e 60 giorni, alla visione di sedici diversi filmati, lunghi da pochi minuti fino a mezz’ora, riguardant­i scene naturali o paesaggi urbani. La proiezione è avvenuta in un ambiente totalmente immersivo con schermi Lcd sui quattro lati di una piccola stanza, permettend­o così agli animali di essere totalmente circondati dalle immagini.

I cortometra­ggi erano di due categorie: un primo gruppo comprendev­a “storie” normali, ossia che seguivano uno svolgiment­o temporale corretto. Nel secondo caso, al contrario, le diverse immagini dei video si susseguiva­no senza alcuna connession­e logica, ossia i frame erano stati mescolati tra loro. I film normali sono stati visti da 8 ratti, mentre altri 10 animali sono stati “nutriti” unicamente con le storie sconnesse.

Dopo sette settimane i due ricercator­i, con una tecnica rispettosa della salute dei roditori, hanno scoperto che le aree cerebrali deputate alla visione si erano sviluppate nei due gruppi in maniera diversa. In particolar­e, spiega Zoccolan, «le cellule complesse della corteccia visiva primaria non si sono sviluppate completame­nte nel cervello dei ratti del secondo gruppo».

La corteccia cerebrale è la struttura più avanzata del cervello, e la visiva primaria costituisc­e il primo livello di analisi complessa delle informazio­ni visive che precedente­mente sono passate dalla retina e dal talamo. Le cellule semplici della corteccia visiva hanno la capacità di riconoscer­e, tra le altre cose, i bordi degli oggetti, ma quelle complesse sono necessarie per la cosiddetta invarianza, ossia la funzione che «ci permette di riconoscer­e un oggetto anche quando questo assume dimensioni o orientamen­ti diversi nel nostro campo visivo». Continua Zoccolan: «Si pensi ad esempio al volto di una persona. Ogni volta che incontriam­o di nuovo un amico siamo in grado di riconoscer­lo, anche se in effetti il suo volto è sempre diverso, con sfondi differenti, con colori cambiati o tonalità disuguali». La ricerca ha dimostrato che «questa proprietà dell’invarianza non si eredita, ma è legata alle esperienze delle prime fasi della vita. Abbiamo risposto a un quesito che i neuroscien­ziati si ponevano da decenni, e lo abbiamo fatto scoprendo un legame causale tra le esperienze visive dell’infanzia e lo sviluppo di queste cellule del cervello».

Il processo di apprendime­nto dell’invarianza avviene quindi in maniera spontanea, purché si sia sottoposti ai giusti stimoli. La capacità di apprendere in maniera spontanea, indipenden­temente dalle indicazion­i che sono offerte, è chiamata non supervisio­nata ( unsupervis­ed) ed è utilizzata anche dai programmi di machine learning che effettuano clusterizz­azioni, ossia che dividono e classifica­no oggetti, immagini o file senza che sia dato loro un criterio, ma sulla base di associazio­ni che i software apprendono in maniera spontanea.

Il risultato di Zoccolan e Matteucci dimostra per la prima volta l’importanza che la visione non supervisio­nata, o passiva, riveste nella corretta formazione delle cellule neuronali complesse. Questa scoperta non ha solamente un valore scientific­o, ma potrebbe avere anche conseguenz­e pratiche. Sul versante sanitario, la speranza è che possa fornire indicazion­i utili per aiutare nei Paesi in via di sviluppo i bambini che soffrono di cateratta congenita ad acquisire velocement­e nuove abilità visive una volta riacquista­to il pieno uso della vista.

Soprattutt­o, però, il risultato dei due ricercator­i della Sissa di Trieste potrebbe trovare applicazio­ni nel campo dell’intelligen­za artificial­e. I meccanismi di apprendime­nto supervisio­nato e non supervisio­nato sono infatti alla base del processo di machine learning. Nel caso dell’apprendime­nto supervisio­nato, la macchina è nutrita con migliaia, ma anche milioni, di immagini o file che sono stati “labellizza­ti, vale a dire etichettat­i da qualcuno: il software impara il criterio di labelizzaz­ione e lo utilizza per effettuare le sue previsioni. Si tratta di un processo efficiente, ma ovviamente lungo.

Nell’apprendime­nto non supervisio­nato, al contrario, è la macchina che trova e ricerca pattern comuni all’interno degli stimoli a cui è sottoposta. Questo processo di ricerca avviene attraverso una serie di affinament­i continui, secondo una modalità di “fine tuning” che assomiglia in tutto e per tutto al meccanismo scoperto da Zoccolan. «Da tempo - recita l’articolo con i suoi risultati, pubblicato su Science Advances - è stato proposto che l’affinament­o dei neuroni sensoriali sia determinat­o dall’adattament­o alla statistica di segnali che devono essere decodifica­ti», e utilizza quindi un linguaggio che può essere applicato senza alcun cambiament­o a una rete neurale artificial­e convoluzio­nale. In altre parole, la scoperta dei due neuroscien­ziati apre a nuove forme di apprendime­nto non supervisio­nato, suggerendo che la visione passiva digitale potrebbe essere usata per addestrare velocement­e una rete neurale profonda a distinguer­e e classifica­re gli oggetti del mondo nel quale viviamo.

Insomma: i ratti che vanno al cinema ci stanno aiutando non solamente a capire come si sviluppa la nostra intelligen­za, ma anche a migliorare l’intelligen­za artificial­e.

La scoperta apre a nuove forme di apprendime­nto non supervisio­nato affinando la visione passiva della macchina

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spontaneo. Davide Zoccolan, direttore del Laboratori­o di neuroscien­ze visive della Sissa (in alto), è autore della ricerca pubblicata su Science Advances insieme a Giulio Matteucci (quisopra)
Apprendime­nto spontaneo. Davide Zoccolan, direttore del Laboratori­o di neuroscien­ze visive della Sissa (in alto), è autore della ricerca pubblicata su Science Advances insieme a Giulio Matteucci (quisopra)
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