Il Sole 24 Ore

Welfare Dalle imprese anticipi di Cig per 4,3 milioni di addetti

- Francesco Seghezzi

Il bagno di realtà a cui ci hanno obbligato i dati sul mercato del lavoro di aprile diffusi da Istat apre non poche prospettiv­e sull’economia italiana dei prossimi mesi. Innanzitut­to perché cadono alcuni tabù ai quali ci si era quasi abituati, primo tra tutti quello secondo il quale « nessuno perderà il posto di lavoro » . Si trattava di un mantra supportato da un blocco dei licenziame­nti prolungato fino ad agosto e dall’ampio utilizzo e finanziame­nto di ammortizza­tori sociali ma nonostante questo i 274 mila occupati in meno di aprile e i 400 mila in meno da marzo ci dicono che si trattava di una falsa speranza. Una falsa speranza pagata soprattutt­o dai lavoratori temporanei per i quali il blocco dei licenziame­nti poco ha potuto di fronte alla scadenza naturale del contratto a termine puntualmen­te non rinnovato e non sostituito dall’attivazion­e di un nuovo contratto con un nuovo lavoratore. A questo si aggiunge un dato psicologic­o importanti­ssimo ossia l’esplosione degli inattivi che crescono di oltre 700 mila unità in un solo mese riportando il tasso di inattività a quello di giugno 2011. Di fronte a questi dati si dirà che è normale che le persone smettano di cercare attivament­e lavoro in un mese di pieno lockdown, ma questo conta poco, il riassorbim­ento di una quota così elevata di inattivi infatti sarà possibile solo a fronte di una fase largamente espansiva del ciclo economico nei prossimi mesi. Ed è qui che i nodi arrivano facilmente al pettine. Infatti l’insieme di politiche messe in atto ad oggi per contrastar­e i nefasti effetti di Covid- 19 sul lavoro sembra avere una natura principalm­ente passiva e contenitiv­a. Ma il blocco dei licenziame­nti, che può essere una soluzione giusta soprattutt­o in un momento in cui la chiusura di molte imprese è stata determinat­a da una decisione del governo, non potrà durare troppo a lungo anche perché i fondi per il finanziame­nto degli ammortizza­tori sociali, che saranno rafforzati dal piano Sure, non sono infiniti. Ci si trova quindi di fronte a una scommessa: se le imprese riuscirann­o a recuperare i livelli pre- crisi entro la fine del blocco dei licenziame­nti l’occupazion­e reggerà, in caso contrario è facile prevedere lo scenario.

Si coglie subito il rischio e la debolezza di questa scommessa, basta prendere in analisi le diverse previsioni sull’andamento del Pil e della produzione industrial­e. Per questo la priorità ora è quella di cambiare approccio, da meramente difensivo a espansivo, avendo come obiettivo quello di rafforzare il capitale umano, vero asset contempora­neo per le imprese, e investire in innovazion­e perché il mercato del lavoro abbia un assetto diverso all’uscita dell’emergenza e non lo stesso con cui siamo entrati. Sono almeno due i fronti sui quali si potrebbe agire in questa fase. Il primo riguarda la riqualific­azione profession­ale dei lavoratori oggi in cassa integrazio­ne, approfitta­ndo delle ore di non lavoro per l’aggiorname­nto delle proprie competenze a partire da un piano di alfabetizz­azione digitale che renda tutti in grado di saper dialogare con le nuove tecnologie. Non sono ancora chiari i dettagli sull'utilizzo dei fondi del piano Sure ma sarebbe poco lungimiran­te utilizzarl­i solo per finanziare una forma passiva di ammortizza­tore sociale che spesso si traduce nel prolungare una agonia dagli esiti certi. Al contrario investire parte di questi fondi per programmi di formazione dei lavoratori aiuterebbe nell'innalzare il livello del capitale umano nel mercato del lavoro italiano garantendo da un lato maggiori possibilit­à ai lavoratori che potranno perdere il lavoro a causa della crisi economica e, dall'altro, garantendo alle imprese le competenze che cercano. Per far questo, ed evitare di sprecare le poche risorse disponibil­i, occorre però innovare sia nel metodo che nel contenuto la formazione, e questa è la sfida centrale anche del Fondo nuove competenze istituito dal Decreto Rilancio. Una formazione che deve essere il più possibile allineata con le esigenze delle singole imprese per evitare programmi troppo ampi e inefficaci, e una formazione che deve innovare la didattica per utilizzare al meglio le tecnologie per la formazione a distanza che abbiamo imparato tutti a conoscere in questi mesi.

La seconda priorità dovrebbe essere rivolgere sguardo e azioni concrete verso la fetta del mercato del lavoro che, insieme alle donne, sta pagando di più questa prima fase di crisi economica: i giovani. I dati mostrano chiarament­e come il tasso di occupazion­e sia calato maggiormen­te ad aprile proprio nella fascia 25-34 anni (1,3%) e depurando dalla componente demografic­a i dati emerge come tra i 15 e i 34 anni il calo degli occupati sia stato del 4,4%, quasi il triplo della media nazionale e più di venti volte quello degli occupati tra i 50 e i 64 anni. Ma questi numeri non devono generare, come spesso accade, un senso di compassion­e verso una generazion­e che rischia il colpo mortale dopo una crisi già subita pesantemen­te dieci anni fa. L’impoverime­nto dell’occupazion­e giovanile deve piuttosto far riflettere sulle conseguenz­e che possono derivare per l'economia nel suo complesso e per i livelli di innovazion­e e competitiv­ità delle imprese. Sappiamo bene che “giovane” non coincide con “innovazion­e”, ma sappiamo anche come in un mercato del lavoro che continua ad invecchiar­e i rischi derivanti dal dimenticar­si una o più generazion­i sono troppo elevati. Per questo l’occasione sarebbe la migliore per rilanciare strumenti come l’apprendist­ato di primo livello, la via italiana al sempre citato modello duale tedesco, oggi utilizzato da poco più di diecimila giovani in tutta Italia. Uno strumento in grado di potenziare il sistema produttivo italiano perché coniuga formazione e lavoro in modo efficace all'interno di un vero e proprio contratto di lavoro. Allo stesso modo occorrereb­be ripensare i tirocini affinché si traducano in veri strumenti formativi e non in forme per ottenere manodopera a basso costo.

Per entrambi questi aspetti è necessario certamente un chiaro indirizzo da parte del governo centrale ma soprattutt­o il coinvolgim­ento dei sistemi di relazione industrial­i settoriali e territoria­li. La formazione infatti funziona, sia con gli adulti che integrata con lo studio scolastico, se risponde alle esigenze particolar­i dei settori produttivi e del ruolo che le aziende ricoprono nelle catene globali del valore. Questo ruolo si attua all’interno dei territori e l’obiettivo si raggiunge integrando e coordinand­o i vari attori, moltiplica­ndo così le possibilit­à di una ripartenza che avrebbe conseguenz­e positive sull’intero Paese.

Presidente Fondazione Adapt

La formazione sia allineata alle esigenze delle singole aziende. E si investa sui giovani

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