Banche centrali, un bazooka fino al 23% del Pil mondiale
I calcoli della Bri. E adesso le cinque principali al mondo (Stati Uniti, Eurozona, Gran Bretagna, Canada e Giappone) potrebbero aumentare la gittata per arrivare al 15-23% entro fine 2023
La crisi senza precedenti scatenata da Covid-19 richiede una risposta altrettanto senza precedenti. Così Banche centrali e Governi non si sono fatti pregare, dando fondo a tutto l’arsenale a loro disposizione e immaginabile, forse anche a qualcosa in più. Ma se le misure fiscali in via di adozione rappresentano forse una novità, soprattutto per l’Europa, non altrettanto può dirsi per quanto stabilito finora sul piano delle politiche monetarie. Ed è davvero difficile togliersi dalla mente il dubbio che su questo fronte si stia combattendo il nemico con quelle stesse armi che in fin dei conti nell’ultimo decennio hanno in fondo creato le condizioni ideali perché un evento esogeno e imprevisto come la pandemia facessetabula facesse tabula rasa, anche in ambito economico e finanziario.
Messe insieme, le principali cinque Banche centrali mondiali (Usa, Eurozona, Gran Bretagna, Canada e Giappone) hanno negli ultimi tre mesi complessivamente aumentato i propri bilanci del 10% rispetto al Pile si accingono a farlo per arrivare fino al 15-23% alla fine del 2023. A disegnare uno scenario simile sono le proiezioni contenute in uno studio appena pubblicato dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) e curato da Paolo Cavallino e Fiorella De Fiore, che non a caso sottolineano come «le speranze di tornare a una situazione precedente alla grande crisi finanziaria del 2008, caratterizzata da bilanci ridotti delle banche centrali, sono definitivamente svanite».
Nessuno, o quasi, mette in dubbio il fatto che misure di simile portata e adottate con tale rapidità fossero inevitabili e necessarie. Più difficile trovare chi sia disposto a guardare oltre l’immediato e a ragionare su conseguenze ed effetti collaterali che gli interventi potrebbero creare in un orizzonte temporale più ampio. Tutti appaiono proiettati sui benefici sperimentabili in tempo reale, meno sui costi che saranno invece noti solo dopo un certo periodo. Ciò che è certo è che questo non sarà un «pasto gratis», un free lunch come avverte César Pérez Ruiz, capo degli investimenti di Pictet Wealth Management: qualcuno prima o poi dovrà insomma pagare.
«Il timore è che a breve termine possano soffrirne le conseguenze aziende che operano in settori regolamentati, le utility per esempio, impossibilitate ad aumentare le tariffe perché bloccate dai Governi», avverte Pérez Ruiz, che invece nel lungo periodo da una parte sottolinea l’aumento delle tasse per coprire i debiti degli Stati e dall’altra agita senza mezzi termini lo spettro dell’inflazione: «È inevitabile-spiega-perché questo quantitative questo quantitative easingèstat oc reato permettere il denaro nelle tasche dei cittadini».
E se rimane difficile parlare di prezzi in aumento in un Eurozona alle prese da tempo con problemi opposti (per non parlare del Giappone), il tema sembra invece attecchire nella principale economia mondiale. «Negli Stati Uniti il ricorso massiccio alla creazione di moneta per iniettare dollari nel sistema finanziario crea ulteriori distorsioni economiche e, considerando anche la crisi dal lato dell’offerta nell’economia globale, proietta il Paese verso uno scenario più simile a quello degli anni 70 della stagflazione, che a quello del gennaio 2020», concorda Tad Rivelle, capo degli investimenti obbligazionari di Tcw.
La sua critica va però oltre gli effetti collaterali e si concentra sulla cura stessa. «Il coronavirus è stato in fondo il catalizzatore, non la causa delle recenti distorsioni di mercato, la cui vera origine è quasi sempre la stessa: un debito eccessivo in alcuni settori», rincara la dose Rivelle, che punta dritto l’indice su quelle Banche centrali che con strumenti monetari «si trovano oggi ancora una volta a combattere l’incendio che esse stesse hanno lasciato divampare». Appare così pressoché inevitabile che il salvagente lanciato finisca per mantenere a galla anche «modelli di business insostenibili dal punto di vista economico e bilanci troppo carichi di debito». Ma forse il momento di chiedersi chi pagherà il conto non è ancora arrivato.