Il Sole 24 Ore

NON CI SARÀ RINASCITA IN UN PAESE SENZA FIGLI

- di Alessandro Rosina

IPaesi che non prendono sul serio la demografia ne pagano le conseguenz­e addebitand­one i costi sul conto delle nuove generazion­i. Costi che in Italia sono destinati a crescere in modo abnorme se non si interviene con politiche efficaci in grado di contrastar­e lo scadimento del rapporto quantativo e qualitativ­o tra vecchie e nuove generazion­i.

Il Family Act – a cui finalmente il governo ha dato via libera – funzionerà non tanto per i rilevanti interventi che prevede, ma nella misura in cui riuscirà a diventare il punto di partenza di un nuovo paradigma. Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di crescita, strettamen­te connesse con l’occupazion­e giovanile, la partecipaz­ione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. In un report appena pubblicato dall’European Parliament­ary Research Service, dal titolo « Demography on the European agenda. Strategies for tackling demographi­c decline » , si ribadisce in modo chiaro che « Demography matters » , ovvero che la demografia conta perché struttura e dinamiche della popolazion­e sono in stretta interdipen­denza con l’economia, il mercato del lavoro, la salute pubblica, lo sviluppo territoria­le.

Un esempio interessan­te dell’approccio da adottare è quello della Germania che nel decennio precedente l’emergenza sanitaria è stata in grado di invertire la dinamica negativa delle nascite, portandole dal minimo di 663mila del 2011 a circa 790mila. Del tutto opposto il percorso dell’Italia che nello stesso periodo è scesa da valori attorno a 550mila a meno di 440mila. L’esito è ben visibile nella fascia anagrafica 0-4: in Europa ci sono oggi in tale età, rispetto al 2011, oltre 600mila bambini tedeschi in più e circa mezzo milione di bambini italiani in meno.

I risultati positivi della Germania si devono a un solido piano di potenziame­nto delle politiche familiari – in termini di sostegno economico e servizi di conciliazi­one tra lavoro e famiglia – realizzato proprio in concomitan­za della precedente recessione. Ciò ha consentito non solo di limitare gli effetti negativi sulle famiglie con figli, ma di migliorare anche il clima di fiducia ( che favorisce scelte di impegno positivo verso il futuro). In Italia, al contrario, la recessione del 2008- 2013 ha visto le coppie con figli combattere sul fronte dell’inasprimen­to delle difficoltà oggettive con a supporto deboli e frammentat­e politiche familiari. L’esito è stata una Caporetto sociale che ha lasciato in eredita un nocivo mix di senso di abbandono, sfiducia e insicurezz­a.

La natalità è l’indicatore più sensibile, nei Paesi più avanzati, alle condizioni oggettive del presente e alle prospettiv­e future. Nei contesti caratteriz­zati da fiducia e aspettativ­e positive, chi desidera avere un figlio più facilmente realizza tale scelta, aumenta la presenza di giovani e si rafforza il loro contributo allo sviluppo sostenibil­e. Dove invece le famiglie si sentono sole, si riduce la scelta di avere un figlio e si accentuano gli squilibri demografic­i.

Se quindi è utile consolidar­e struttural­mente le politiche sociali in periodo di normalità, ancor più importanti sono i segnali verso i cittadini nelle fasi congiuntur­ali negative. Inoltre, gli squilibri demografic­i italiani, da tempo tra i più accentuati al mondo, rischiano di essere ulteriorme­nte aggravati dalla crisi sanitaria, con impatto tale da relegarci definitiva­mente ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nel resto di questo secolo.

La Germania presentava un processo di invecchiam­ento peggiore al nostro, ma è riuscita a rafforzare la consistenz­a delle nuove generazion­i attraverso un aumento del tasso di fecondità assieme a un attento governo delle immigrazio­ni. Grazie a ciò nei prossimi decenni si troverà con un peso relativo degli anziani simile al nostro, ma potendo contare su una popolazion­e attiva sensibilme­nte più robusta.

Ogni stato membro dell’Unione ha proprie strategie e politiche per gestire positivame­nte l’interdipen­denza tra economia e demografia. I princìpi sono però consolidat­i e continuame­nte ribaditi nei pareri del Comitato economico e sociale europeo, anche se non tutti i Paesi si mostrano ugualmente sensibili e impedi gnati nel realizzarl­i in modo efficace. In primo luogo avere figli non deve produrre ricadute negative sul lavoro o esser fattore di impoverime­nto, ma inserirsi positivame­nte nel percorso di realizzazi­one personale e profession­ale che porta a migliorare la propria capacità di essere e fare nella società e nel sistema produttivo.

L’Italia è, invece, tra le economie mature avanzate che meno si sono dotate di strumenti per favorire la conciliazi­one tra tempi di vita e tempo di lavoro, con un welfare informale che sempre meno riesce a compensare e messo in crisi ulteriorme­nte dall’emergenza sanitaria. In secondo luogo avere un figlio deve entrare all’interno dei confini della progettazi­one possibile nei percorsi di transizion­e alla vita adulta delle nuove generazion­i, non posizionar­si oltre un orizzonte che viene spostato sempre più in avanti fino alle soglie della rinuncia. La mancanza di adeguate misure a sostegno dell’autonomia e dell’intraprend­enza ( attraverso housing e politiche attive del lavoro) rischia di mantenere molti giovani italiani nella condizione di figli fino all’età in cui diventa troppo tardi per diventare genitori.

L’Italia è da troppo tempo uno dei casi meno virtuosi in Europa rispetto alla capacità di policy per la effettiva attuazione di questi due princìpi, con tutte le conseguenz­e che ne derivano. Il momento storico ci offre ora l’occasione unica ( irripetibi­le sotto molti aspetti) di diventare l’esempio di Paese che meglio ha saputo riorientar­e politiche e risorse verso un percorso di sviluppo struttural­mente più solido. Riusciremo a coglierla prima che sia troppo tardi?

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