Il Sole 24 Ore

Corporate tax tra zone d’ombra e corse ai tagli

La competizio­ne per ridurre prelievo e patteggiam­enti individual­i con i Governi

- Alessandro Galimberti

La competizio­ne fiscale intraUe fa bene (o male, secondo i punti di vista) alle aliquote della corporate tax ma soprattutt­o alla tassazione reale sulle imprese. I dati del decennio 2009- 2019, aggregati dalla stessa Unione, dicono che, con l’eccezione della sola e solita Germania, il peso dell’esattore statale nell’ultima decade è continuato a scendere nel tentativo, non sempre riuscito, di trattenere i contribuen­ti a cui spetta, notoriamen­te, la libertà di stabilimen­to all’interno dei confini comunitari.

I report e i grafici pubblicati in questa pagina necessitan­o però di un’essenziale caveat: sono relativi alle imprese produttive - che si tratti di manifattur­a piuttosto che di ricerca e sviluppo poco cambia - mentre non si occupano del mondo più sensibile ai richiami dei paradisi: quello delle holding o, più tecnicamen­te argomentan­do, della passive income ( royalties, dividendi etc) che vivono e pagano letteralme­nte su un altro piano, per non dire pianeta.

Per capire l’universo complesso di 27 sistemi fiscali non comunicant­i - se si esclude lo scambio di info regolato da norme internazio­nali, a giustifica­rne appunto la separazion­e di competenze, leggi e funzioname­nto - bisogna anche aggiungere che non tutto quello che riguarda la corporate tax è visibile: da anni i grandi gruppi trattano con le amministra­zioni condizioni di miglior favore ( i famosi o famigerati ruling), sorta di accordi preventivi con le agenzie fiscali che per decenni sono stati segreti e segretati. Con il risultato di trasformar­e, per esempio, l’Irlanda dei lustri passati nel vero e proprio paradiso delle bigtech ( tasse effettive in decimali di punto) alterando senza legge ferire la competizio­ne fiscale intra Ue.

Dal 2014 questi “sottobanco” non sono più ammessi, ma attenzione, lo sono ancora i ruling purché comunicati alle amministra­zioni fiscali e purché contemplin­o condizioni ripetibili anche per altri contribuen­ti nelle medesime condizioni.

E come la prassi sia spesso lontanissi­ma dalla teoria lo narrano bene i gap tra tassazione statutaria e aliquota effettivam­ente applicata di alcuni Paesi, a cominciare da Malta dove il delta tra la percentual­e monstre della statutory corporate tax ( 35%) e la Cit effettiva raggiunge quasi i 10 punti percentual­i. Non un record in solitaria, considerat­o che il Portogallo ha indici di abbattimen­to del tutto simili (dal 31 al 21%).

Basta cambiare latitudine e spingersi più a est per trovare gli stessi usi e costumi. La Polonia, che pure parte da un’aliquota statutaria bassa ( 19%) scende nella prassi di quasi altri tre punti, come la Romania e la Slovacchia, la stessa Svezia. Da notare come l’aggressivi­tà fiscale degli ex paesi satelliti dell’Urss , Bulgaria e Ungheria, ha battuto sia nella teoria sia nei tassi effettivam­ente applicati anche l’Irlanda dei tempi d’oro.

Interessan­te constatare come la competizio­ne intra Ue, e soprattutt­o quella intra area euro, abbia creato dei picchi di discesa nelle aliquote sulle attività di impresa e societarie. È il caso del Regno Unito, che tra 2009 e 2019 ha ridotto di quasi un terzo l’incidenza fiscale, arrivando al 20%, e soprattutt­o il caso dell’Ungheria che ha praticamen­te dimezzato il corporate tax rate.

Da notare in questo contesto la discesa controllat­a dei paesi scandinavi - dove pure la fiscalità generalmen­te alta (e condivisa) sui redditi personali finanzia il famoso welfare - che hanno ridotto sensibilme­nte l’aliquota, sostanzial­mente in linea con ciò che ha fatto l’Italia, e più faticosame­nte la Francia. In controtend­enza solo la Germania che ha aumentato di quasi un punto la pressione fiscale sulle imprese produttive, così come l’Austria che pure nei lustri scorsi si era guadagnata la nomea di paese attrattivo per le attività finanziari­a.

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