Corporate tax tra zone d’ombra e corse ai tagli
La competizione per ridurre prelievo e patteggiamenti individuali con i Governi
La competizione fiscale intraUe fa bene (o male, secondo i punti di vista) alle aliquote della corporate tax ma soprattutto alla tassazione reale sulle imprese. I dati del decennio 2009- 2019, aggregati dalla stessa Unione, dicono che, con l’eccezione della sola e solita Germania, il peso dell’esattore statale nell’ultima decade è continuato a scendere nel tentativo, non sempre riuscito, di trattenere i contribuenti a cui spetta, notoriamente, la libertà di stabilimento all’interno dei confini comunitari.
I report e i grafici pubblicati in questa pagina necessitano però di un’essenziale caveat: sono relativi alle imprese produttive - che si tratti di manifattura piuttosto che di ricerca e sviluppo poco cambia - mentre non si occupano del mondo più sensibile ai richiami dei paradisi: quello delle holding o, più tecnicamente argomentando, della passive income ( royalties, dividendi etc) che vivono e pagano letteralmente su un altro piano, per non dire pianeta.
Per capire l’universo complesso di 27 sistemi fiscali non comunicanti - se si esclude lo scambio di info regolato da norme internazionali, a giustificarne appunto la separazione di competenze, leggi e funzionamento - bisogna anche aggiungere che non tutto quello che riguarda la corporate tax è visibile: da anni i grandi gruppi trattano con le amministrazioni condizioni di miglior favore ( i famosi o famigerati ruling), sorta di accordi preventivi con le agenzie fiscali che per decenni sono stati segreti e segretati. Con il risultato di trasformare, per esempio, l’Irlanda dei lustri passati nel vero e proprio paradiso delle bigtech ( tasse effettive in decimali di punto) alterando senza legge ferire la competizione fiscale intra Ue.
Dal 2014 questi “sottobanco” non sono più ammessi, ma attenzione, lo sono ancora i ruling purché comunicati alle amministrazioni fiscali e purché contemplino condizioni ripetibili anche per altri contribuenti nelle medesime condizioni.
E come la prassi sia spesso lontanissima dalla teoria lo narrano bene i gap tra tassazione statutaria e aliquota effettivamente applicata di alcuni Paesi, a cominciare da Malta dove il delta tra la percentuale monstre della statutory corporate tax ( 35%) e la Cit effettiva raggiunge quasi i 10 punti percentuali. Non un record in solitaria, considerato che il Portogallo ha indici di abbattimento del tutto simili (dal 31 al 21%).
Basta cambiare latitudine e spingersi più a est per trovare gli stessi usi e costumi. La Polonia, che pure parte da un’aliquota statutaria bassa ( 19%) scende nella prassi di quasi altri tre punti, come la Romania e la Slovacchia, la stessa Svezia. Da notare come l’aggressività fiscale degli ex paesi satelliti dell’Urss , Bulgaria e Ungheria, ha battuto sia nella teoria sia nei tassi effettivamente applicati anche l’Irlanda dei tempi d’oro.
Interessante constatare come la competizione intra Ue, e soprattutto quella intra area euro, abbia creato dei picchi di discesa nelle aliquote sulle attività di impresa e societarie. È il caso del Regno Unito, che tra 2009 e 2019 ha ridotto di quasi un terzo l’incidenza fiscale, arrivando al 20%, e soprattutto il caso dell’Ungheria che ha praticamente dimezzato il corporate tax rate.
Da notare in questo contesto la discesa controllata dei paesi scandinavi - dove pure la fiscalità generalmente alta (e condivisa) sui redditi personali finanzia il famoso welfare - che hanno ridotto sensibilmente l’aliquota, sostanzialmente in linea con ciò che ha fatto l’Italia, e più faticosamente la Francia. In controtendenza solo la Germania che ha aumentato di quasi un punto la pressione fiscale sulle imprese produttive, così come l’Austria che pure nei lustri scorsi si era guadagnata la nomea di paese attrattivo per le attività finanziaria.