Il Sole 24 Ore

Il diritto d’autore ai tempi della pandemia

In lockdown le piattaform­e digitali hanno enfatizzat­o la valorizzaz­ione di dati e algoritmi rispetto ai contenuti: per gli artisti più che sussidi servirà l’accesso a quelle informazio­ni

- Giuseppe Mazziotti

In risposta al Covid-19 molti artisti hanno iniziato spontaneam­ente a trasmetter­e spettacoli da casa utilizzand­o un numero molto esiguo di piattaform­e digitali, alcune delle quali hanno da tempo superato il miliardo di utenti. Se, da un lato, questi servizi consentono agli artisti di non perdere il contatto con il proprio pubblico, dall’altro la logica a essi sottostant­e penalizza gli autori e le industrie culturali in modo sistemico. Le piattaform­e valorizzan­o non tanto i contenuti quanto l’infrastrut­tura di dati personali e algoritmi, molto sofisticat­i e segreti, che le sorreggono.

Quasi fossero un’esca, i contenuti – quali che essi siano, profession­ali e non - servono ai proprietar­i delle piattaform­e per tenere il più possibile alta l’attenzione degli utenti e raccoglier­e, per poi elaborarla e venderla, la maggior quantità possibile di dati sul loro comportame­nto. Per questo motivo si parla di mercati dell’attenzione e di capitalism­o della sorveglian­za.

Come si pagano i contenuti?

In uno scenario in cui la logica degli algoritmi e dei loro suggerimen­ti aumenta a dismisura il divario tra superstar e altri profession­isti, bisogna distinguer­e tra servizi quali Netflix e Spotify e reti sociali come YouTube, Facebook and Instagram.

I primi si comportano più o meno come le television­i, anche a pagamento, e le radio tradiziona­li: scelgono in anticipo i propri repertori, curandoli profession­almente e negoziando – con società di gestione collettiva tipo la nostra Siae e produttori discografi­ci e audiovisiv­i - forme di compenso fondate essenzialm­ente sulla quantità e popolarità di un certo film, serie tv o album.

I secondi, invece, almeno all’inizio della loro storia, quindici anni fa, i contenuti, sempliceme­nte, non li pagavano: un po' come avveniva agli albori di Internet (e ancora accade) con il file-sharing.

Per molti anni le reti sociali hanno beneficiat­o di un principio giuridico di neutralità tecnologic­a e limitazion­e della loro responsabi­lità – coniato dagli Stati Uniti nel 1998 e seguito dall’Europa nel 2000 – che ha permesso loro di crescere esponenzia­lmente senza doversi preoccupar­e, perlomeno in anticipo, di ciò che i propri utenti mettessero a disposizio­ne del pubblico. Ancora oggi si ritiene che questo privilegio sia alla base della grande differenza tra i compensi pagati agli artisti e all’industria musicale da servizi come Spotify, Apple Music e Deezer e quelli pagati da YouTube, che si stimano anche dieci volte più bassi.

Il ruolo centrale dei dati

Sarebbe ingenuo, però, non tener conto della notevole evoluzione delle reti sociali nell’ultimo decennio. Per esempio, da quando Google l’ha acquisita, nel 2007, YouTube consente nuove forme di creazione di contenuti profession­ali dal basso, con un taglio degli intermedia­ri e lo sviluppo di un’infrastrut­tura digitale e contrattua­le degna del più grande produttore di contenuti del mondo. Un numero sempre più rilevante di artisti decide di diventare partner della piattaform­a, monetizzan­do i propri diritti d’autore sulla base di accordi individual­i che riservano al singolo artista (e al suo team) più della metà dei ricavi pubblicita­ri ricavati grazie a un determinat­o contenuto.

Al centro di questo sistema c’è un’enorme quantità di dati raccolti, identifica­ti e messi in relazione tra essi. Nell’ecosistema di YouTube, per esempio, è una tecnologia chiamata “Content ID” a svolgere questa funzione, permettend­o agli autori e, più in generale, ai titolari di diritti d’autore di proteggere e gestire i propri diritti d’autore. È solo attraverso questo tipo strumenti e di informazio­ni dettagliat­e sulla proprietà intellettu­ale di ciascun contenuto che servizi quali YouTube e Spotify, pur nella loro diversità struttural­e, riescono a remunerare i singoli artisti in modo proporzion­ale.

Banche dati, scatole nere e la Ue

Anche per favorire gli investimen­ti nello sviluppo di banche dati internazio­nali, quanto più possibile standard, nel 2014 l’Unione Europea ha emanato una direttiva che, liberalizz­ando il mercato della gestione collettiva dei diritti, obbliga società come la Siae al rispetto di criteri di efficienza, trasparenz­a e responsabi­lità molto stringenti e consoni alla nuova realtà tecnologic­a.

Per completare l’opera, l’Europa si è mossa verso una progressiv­a regolament­azione e responsabi­lizzazione delle reti sociali. Prendendo chiarament­e le distanze dal principio di limitazion­e della responsabi­lità degli intermedia­ri digitali (ancora valido negli Stati Uniti) una direttiva del maggio 2019, attualment­e in fase di trasposizi­one in Italia, obbliga questi servizi a ottenere una licenza per tutti i contenuti pubblicati dagli utenti. Inoltre, la direttiva sancisce un principio di remunerazi­one equa e trasparent­e per autori e interpreti, attribuend­o loro un diritto di accesso ai dati sui profitti che i media tradiziona­li (radio e tv) e le piattaform­e, reti sociali incluse, realizzano grazie a diversi tipi di contenuti creativi. È così che si ritiene, almeno in Europa, che in futuro si possa rafforzare il potere contrattua­le degli artisti: conferendo loro non solo astratti diritti (e qualche sussidio in tempi di pandemia) ma poteri di accesso a dati finora tenuti segreti nelle scatole nere delle grandi aziende digitali.

Docente di Diritto della proprietà intellettu­ale al Trinity College di Dublino

L’Europa si è mossa in anticipo responsabi­lizzando le reti sociali e adottando il principio di equa remunerazi­one

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REUTERS
Musica da casa. Marissa Regni, violinista della National Symphony Orchestra americana si esibisce da casa a fine marzo durante un’esibizione nell’ambito dell’iniziativa NSO@Home LIVE per portare la musica nelle case REUTERS

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