Il diritto d’autore ai tempi della pandemia
In lockdown le piattaforme digitali hanno enfatizzato la valorizzazione di dati e algoritmi rispetto ai contenuti: per gli artisti più che sussidi servirà l’accesso a quelle informazioni
In risposta al Covid-19 molti artisti hanno iniziato spontaneamente a trasmettere spettacoli da casa utilizzando un numero molto esiguo di piattaforme digitali, alcune delle quali hanno da tempo superato il miliardo di utenti. Se, da un lato, questi servizi consentono agli artisti di non perdere il contatto con il proprio pubblico, dall’altro la logica a essi sottostante penalizza gli autori e le industrie culturali in modo sistemico. Le piattaforme valorizzano non tanto i contenuti quanto l’infrastruttura di dati personali e algoritmi, molto sofisticati e segreti, che le sorreggono.
Quasi fossero un’esca, i contenuti – quali che essi siano, professionali e non - servono ai proprietari delle piattaforme per tenere il più possibile alta l’attenzione degli utenti e raccogliere, per poi elaborarla e venderla, la maggior quantità possibile di dati sul loro comportamento. Per questo motivo si parla di mercati dell’attenzione e di capitalismo della sorveglianza.
Come si pagano i contenuti?
In uno scenario in cui la logica degli algoritmi e dei loro suggerimenti aumenta a dismisura il divario tra superstar e altri professionisti, bisogna distinguere tra servizi quali Netflix e Spotify e reti sociali come YouTube, Facebook and Instagram.
I primi si comportano più o meno come le televisioni, anche a pagamento, e le radio tradizionali: scelgono in anticipo i propri repertori, curandoli professionalmente e negoziando – con società di gestione collettiva tipo la nostra Siae e produttori discografici e audiovisivi - forme di compenso fondate essenzialmente sulla quantità e popolarità di un certo film, serie tv o album.
I secondi, invece, almeno all’inizio della loro storia, quindici anni fa, i contenuti, semplicemente, non li pagavano: un po' come avveniva agli albori di Internet (e ancora accade) con il file-sharing.
Per molti anni le reti sociali hanno beneficiato di un principio giuridico di neutralità tecnologica e limitazione della loro responsabilità – coniato dagli Stati Uniti nel 1998 e seguito dall’Europa nel 2000 – che ha permesso loro di crescere esponenzialmente senza doversi preoccupare, perlomeno in anticipo, di ciò che i propri utenti mettessero a disposizione del pubblico. Ancora oggi si ritiene che questo privilegio sia alla base della grande differenza tra i compensi pagati agli artisti e all’industria musicale da servizi come Spotify, Apple Music e Deezer e quelli pagati da YouTube, che si stimano anche dieci volte più bassi.
Il ruolo centrale dei dati
Sarebbe ingenuo, però, non tener conto della notevole evoluzione delle reti sociali nell’ultimo decennio. Per esempio, da quando Google l’ha acquisita, nel 2007, YouTube consente nuove forme di creazione di contenuti professionali dal basso, con un taglio degli intermediari e lo sviluppo di un’infrastruttura digitale e contrattuale degna del più grande produttore di contenuti del mondo. Un numero sempre più rilevante di artisti decide di diventare partner della piattaforma, monetizzando i propri diritti d’autore sulla base di accordi individuali che riservano al singolo artista (e al suo team) più della metà dei ricavi pubblicitari ricavati grazie a un determinato contenuto.
Al centro di questo sistema c’è un’enorme quantità di dati raccolti, identificati e messi in relazione tra essi. Nell’ecosistema di YouTube, per esempio, è una tecnologia chiamata “Content ID” a svolgere questa funzione, permettendo agli autori e, più in generale, ai titolari di diritti d’autore di proteggere e gestire i propri diritti d’autore. È solo attraverso questo tipo strumenti e di informazioni dettagliate sulla proprietà intellettuale di ciascun contenuto che servizi quali YouTube e Spotify, pur nella loro diversità strutturale, riescono a remunerare i singoli artisti in modo proporzionale.
Banche dati, scatole nere e la Ue
Anche per favorire gli investimenti nello sviluppo di banche dati internazionali, quanto più possibile standard, nel 2014 l’Unione Europea ha emanato una direttiva che, liberalizzando il mercato della gestione collettiva dei diritti, obbliga società come la Siae al rispetto di criteri di efficienza, trasparenza e responsabilità molto stringenti e consoni alla nuova realtà tecnologica.
Per completare l’opera, l’Europa si è mossa verso una progressiva regolamentazione e responsabilizzazione delle reti sociali. Prendendo chiaramente le distanze dal principio di limitazione della responsabilità degli intermediari digitali (ancora valido negli Stati Uniti) una direttiva del maggio 2019, attualmente in fase di trasposizione in Italia, obbliga questi servizi a ottenere una licenza per tutti i contenuti pubblicati dagli utenti. Inoltre, la direttiva sancisce un principio di remunerazione equa e trasparente per autori e interpreti, attribuendo loro un diritto di accesso ai dati sui profitti che i media tradizionali (radio e tv) e le piattaforme, reti sociali incluse, realizzano grazie a diversi tipi di contenuti creativi. È così che si ritiene, almeno in Europa, che in futuro si possa rafforzare il potere contrattuale degli artisti: conferendo loro non solo astratti diritti (e qualche sussidio in tempi di pandemia) ma poteri di accesso a dati finora tenuti segreti nelle scatole nere delle grandi aziende digitali.
Docente di Diritto della proprietà intellettuale al Trinity College di Dublino
L’Europa si è mossa in anticipo responsabilizzando le reti sociali e adottando il principio di equa remunerazione