Il Sole 24 Ore

Startup, gli acquisti dei big—

Negli ultimi due mesi Poste, Eni e Campari hanno investito 50 milioni in Pmi digitali, spinte dal boom dell’e-commerce innescato dal virus. Con i colossi in campo i prezzi salgono e per i fondi è più facile raccoglier­e

- Marco Ferrando á@ marcoferra­ndo77

Poste, Campari, Eni. Tre colossi, tre investimen­ti in poco più di un mese in tre startup digitali, quasi 50 milioni sul tavolo per portarsi a casa un pezzo di Milkman, Tannico e Tate. Qualcosa è cambiato nel mondo del corporate venture italiano. Perché tutto sta accelerand­o, e anche chi è avanti vede il rischio di essere tagliato fuori. Big compresi.

È uno dei tanti effetti, globali, della pandemia. Negli Stati Uniti, ad esempio, «in otto settimane si è fatto più che negli ultimi dieci anni, con la penetrazio­ne dell’e-commerce balzata dal 16 al 27% degli acquisti complessiv­i», fa notare Riccardo Monti, managing director e senior partner di Boston Consulting Group in Italia. «In Italia siamo più indietro, ma la direzione è questa con un enorme ritardo da colmare: le grandi corporate lo hanno capito e si stanno attivando. Anche perché pure in Italia il sottobosco dell’innovazion­e brulica, e così come in giro per il mondo si è rivelato in grado di offrire, chiavi in mano, modelli di business coerenti con quel bisogno di digitalizz­are tutto e subito che la pandemia ha espresso».

Lo ha detto chiarament­e il ceo di Campari, Bob Kunze-Concewitz, spiegando una mossa inusuale per il gruppo, abituato allo shopping di marchi affermati più che di giovani enoteche online: «Facendo leva sull’esperienza di Tannico, saremo in grado di accelerare i nostri piani di sviluppo nell’e-commerce, canale già in crescita, ma destinato a diventare ancora più strategico a seguito delle probabili durevoli modifiche nel comportame­nto dei consumator­i indotte dall’emergenza Covid-19». Non a caso, l’operazione ha preso forma proprio durante le prime settimane di quarantena e ha visto la luce non appena ha potuto.

D’altronde l’urgenza è uno dei denominato­ri comuni delle tre operazioni chiuse negli ultimi due mesi. Non le prime, non le uniche, diverse per taglia e settore ma «con evidenti analogie», fa notare Andrea Di Camillo, che le conosce bene perché con il suo fondo P101 ha partecipat­o a quelle di Milkman e Tannico, dove ha investito negli anni passati: «L’intervento di soggetti di questo livello con cifre importanti su quote di minoranza rappresent­a uno straordina­rio endorsemen­t per tutto l’ecosistema italiano dell’innovazion­e». Morale: dopo la lunga stagione degli incentivi e dei pionieri, degli incubatori e degli accelerato­ri, in attesa del piano da un miliardo del Fondo nazionale per l’innovazion­e in gestazione da oltre un anno, forse si sta mettendo in moto il mercato. Quello vero. L’unico che può far definitiva­mente uscire il venture capital italiano da una nicchia che già si sta allargando da sola, come dimostrano i 597 milioni investiti l’anno scorso nei 148 deal censiti dal Venture capital monitor insieme all’Aifi.

In tre anni, i volumi sono triplicati. E gli effetti si vedono anche sui prezzi, concetto pur limitativo quando si parla di startup innovative ad alto tasso di crescita. A parte Tate, che è un investimen­to seed, le altre operazioni sono avvenute su multipli che valorizzan­o le startup fino a 3 volte il fatturato. Più che nel passato anche recente, ma soprattutt­o quanto basta a generare exit interessan­ti e - a cascata - a tener vivo l’appetito e stimolare nuova raccolta, anche su mercati nuovi.

In questo delicato ingranaggi­o, soprattutt­o nella fase iniziale, «il ruolo delle grandi corporate è decisivo», osserva ancora Monti. Perché «oltre alla finanza ci mettono la componente industrial­e in un’ottica di open innovation». Emblematic­o il caso di Tate: di fronte agli 8 milioni di clienti di Eni gas e luce, quasi non si vedono i 3mila della startup. «Ma siamo certi che tra pochi anni dovremo aggiungere alcuni zeri, e poi per noi è una porta sul mercato dei millennial­s e sui nuovi servizi digitali che Tate sarà in grado di offrire grazie alla sua app concepita e sviluppata internamen­te» racconta Alberto Chiarini, ad della controllat­a del Cane a sei zampe. Che ha scelto di comprare solo un 20% «perché vogliamo che gli imprendito­ri si sentano liberi di camminare sulla loro strada e non soffocarli: per noi già è molto poter vedere, attraverso i loro occhi, il nostro mondo da un altro punto di vista».

Con Milkman, Poste ha fatto la stessa scelta: oltre a comprarsi le attività di consegna ad alto valore aggiunto, confluite in una newco, ha scelto di mettere un piede anche nella capogruppo, una sorta di ticket da 5 milioni per avere il 6% di un puro provider tecnologic­o. D’altronde, come ha ricordato pochi giorni fa a Il Sole 24 Ore l’ad Matteo Del Fante, «il gruppo ha concentrat­o oltre 150 milioni d’investimen­ti su startup innovative», una strategia a cui Poste ha dedicato anche l’ultimo investor day di gennaio, a Londra. Perché, al mercato, queste storie piacciono.

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 ??  ?? L’investitor­e. Andrea Di Camillo (P101) ( P101) è convinto che «l’ingresso dei grandi gruppi con cifre importanti rappresent­a uno straordina­rio endorsemen­t per l’ecosistema italiano dell’innovazion­e»
L’investitor­e. Andrea Di Camillo (P101) ( P101) è convinto che «l’ingresso dei grandi gruppi con cifre importanti rappresent­a uno straordina­rio endorsemen­t per l’ecosistema italiano dell’innovazion­e»
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Il manager. Alberto Chiarini, ad di Eni Gas e Luce, ha scelto di comprare solo il 20% di Tate «perché vogliamo che gli imprendito­ri si sentano liberi di camminare sulla loro strada e non soffocarli soffocarli» »
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L’esperto. Per Riccardo Monti, senior partner Bcg, in Italia le startup «si sono rivelate in grado di offrire soluzioni coerenti con quel bisogno di digitalizz­are tutto e subito che la pandemia ha espresso»

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