Startup, gli acquisti dei big—
Negli ultimi due mesi Poste, Eni e Campari hanno investito 50 milioni in Pmi digitali, spinte dal boom dell’e-commerce innescato dal virus. Con i colossi in campo i prezzi salgono e per i fondi è più facile raccogliere
Poste, Campari, Eni. Tre colossi, tre investimenti in poco più di un mese in tre startup digitali, quasi 50 milioni sul tavolo per portarsi a casa un pezzo di Milkman, Tannico e Tate. Qualcosa è cambiato nel mondo del corporate venture italiano. Perché tutto sta accelerando, e anche chi è avanti vede il rischio di essere tagliato fuori. Big compresi.
È uno dei tanti effetti, globali, della pandemia. Negli Stati Uniti, ad esempio, «in otto settimane si è fatto più che negli ultimi dieci anni, con la penetrazione dell’e-commerce balzata dal 16 al 27% degli acquisti complessivi», fa notare Riccardo Monti, managing director e senior partner di Boston Consulting Group in Italia. «In Italia siamo più indietro, ma la direzione è questa con un enorme ritardo da colmare: le grandi corporate lo hanno capito e si stanno attivando. Anche perché pure in Italia il sottobosco dell’innovazione brulica, e così come in giro per il mondo si è rivelato in grado di offrire, chiavi in mano, modelli di business coerenti con quel bisogno di digitalizzare tutto e subito che la pandemia ha espresso».
Lo ha detto chiaramente il ceo di Campari, Bob Kunze-Concewitz, spiegando una mossa inusuale per il gruppo, abituato allo shopping di marchi affermati più che di giovani enoteche online: «Facendo leva sull’esperienza di Tannico, saremo in grado di accelerare i nostri piani di sviluppo nell’e-commerce, canale già in crescita, ma destinato a diventare ancora più strategico a seguito delle probabili durevoli modifiche nel comportamento dei consumatori indotte dall’emergenza Covid-19». Non a caso, l’operazione ha preso forma proprio durante le prime settimane di quarantena e ha visto la luce non appena ha potuto.
D’altronde l’urgenza è uno dei denominatori comuni delle tre operazioni chiuse negli ultimi due mesi. Non le prime, non le uniche, diverse per taglia e settore ma «con evidenti analogie», fa notare Andrea Di Camillo, che le conosce bene perché con il suo fondo P101 ha partecipato a quelle di Milkman e Tannico, dove ha investito negli anni passati: «L’intervento di soggetti di questo livello con cifre importanti su quote di minoranza rappresenta uno straordinario endorsement per tutto l’ecosistema italiano dell’innovazione». Morale: dopo la lunga stagione degli incentivi e dei pionieri, degli incubatori e degli acceleratori, in attesa del piano da un miliardo del Fondo nazionale per l’innovazione in gestazione da oltre un anno, forse si sta mettendo in moto il mercato. Quello vero. L’unico che può far definitivamente uscire il venture capital italiano da una nicchia che già si sta allargando da sola, come dimostrano i 597 milioni investiti l’anno scorso nei 148 deal censiti dal Venture capital monitor insieme all’Aifi.
In tre anni, i volumi sono triplicati. E gli effetti si vedono anche sui prezzi, concetto pur limitativo quando si parla di startup innovative ad alto tasso di crescita. A parte Tate, che è un investimento seed, le altre operazioni sono avvenute su multipli che valorizzano le startup fino a 3 volte il fatturato. Più che nel passato anche recente, ma soprattutto quanto basta a generare exit interessanti e - a cascata - a tener vivo l’appetito e stimolare nuova raccolta, anche su mercati nuovi.
In questo delicato ingranaggio, soprattutto nella fase iniziale, «il ruolo delle grandi corporate è decisivo», osserva ancora Monti. Perché «oltre alla finanza ci mettono la componente industriale in un’ottica di open innovation». Emblematico il caso di Tate: di fronte agli 8 milioni di clienti di Eni gas e luce, quasi non si vedono i 3mila della startup. «Ma siamo certi che tra pochi anni dovremo aggiungere alcuni zeri, e poi per noi è una porta sul mercato dei millennials e sui nuovi servizi digitali che Tate sarà in grado di offrire grazie alla sua app concepita e sviluppata internamente» racconta Alberto Chiarini, ad della controllata del Cane a sei zampe. Che ha scelto di comprare solo un 20% «perché vogliamo che gli imprenditori si sentano liberi di camminare sulla loro strada e non soffocarli: per noi già è molto poter vedere, attraverso i loro occhi, il nostro mondo da un altro punto di vista».
Con Milkman, Poste ha fatto la stessa scelta: oltre a comprarsi le attività di consegna ad alto valore aggiunto, confluite in una newco, ha scelto di mettere un piede anche nella capogruppo, una sorta di ticket da 5 milioni per avere il 6% di un puro provider tecnologico. D’altronde, come ha ricordato pochi giorni fa a Il Sole 24 Ore l’ad Matteo Del Fante, «il gruppo ha concentrato oltre 150 milioni d’investimenti su startup innovative», una strategia a cui Poste ha dedicato anche l’ultimo investor day di gennaio, a Londra. Perché, al mercato, queste storie piacciono.