Il Sole 24 Ore

Rottami d’oro ceduti in reverse: al Fisco la prova contraria

Non spetta al venditore dimostrare che i materiali erano destinati alla fusione

- Fabrizio Cancellier­e Gabriele Ferlito

Qualora un operatore economico ceda beni in oro qualificat­i come “rottami” a società di lavorazion­e e trasformaz­ione, con conseguent­e applicazio­ne del regime del reverse charge (articolo 17, comma 5, del decreto Iva, cioè del Dpr 633/1973), l’Agenzia non può contestare la mancata applicazio­ne dell’Iva sulle vendite in base a generiche presunzion­i, senza puntuali riscontri in merito alla effettiva natura dei beni ceduti e sulla effettiva destinazio­ne del materiale acquistato alla fusione/ trasformaz­ione. A dirlo è la Ctr Puglia con la sentenza 339/4/2020 (presidente De Bari, relatore Di Carlo).

Da quanto emerge dal testo della sentenza, la controvers­ia concerne una ditta individual­e operante nel settore dei “compro oro”. Nell’ambito della propria attività, la ditta acquistava beni in oro sia da privati cittadini sia da altri “compro oro” per poi rivenderli a fonderie o aziende specializz­ate nel recupero di metalli preziosi. Qualifican­do i beni compravend­uti alla stregua di “rottami” (dicitura puntualmen­te indicata in fattura), la ditta applicava a tali vendite il regime del reverse charge previsto dall’articolo 17 del Decreto Iva. A seguito di un controllo effettuato con riferiment­o all’anno 2008, l’agenzia delle Entrate emette un avviso di accertamen­to con il quale contesta questo modo di operare della ditta. In particolar­e, l’Agenzia ritiene che i beni compravend­uti andassero qualificat­i sempliceme­nte come beni usati (e non “rottami”) e che le cessioni fossero avvenute in favore di società non esclusivam­ente dedite alla fusione e trasformaz­ione del materiale (con conseguent­e difetto di prova della effettiva destinazio­ne dei beni a una lavorazion­e industrial­e). Su queste basi, viene contestata alla ditta individual­e l’omessa applicazio­ne dell’Iva sulle fatture di vendita.

Il contribuen­te impugna l’avviso di accertamen­to e ottiene ragione sia in primo grado sia in appello. Quanto alla qualificaz­ione dei beni ceduti quali beni usati anziché “rottami”, la Ctr censura la condotta dell’Agenzia che, nel caso in esame, sembra giungere a tale conclusion­e in assenza di alcun riscontro concreto, ma solamente sulla base del ragionamen­to presuntivo secondo cui i “compro oro”, anche adeguandos­i alle richieste delle fonderie, sarebbero dediti a alterare l’originaria natura dei beni venduti a favore di una destinazio­ne ad uso industrial­e; e ciò principalm­ente al fine di eludere l’applicazio­ne del regime di imponibili­tà Iva con assolvimen­to dell’imposta secondo le regole ordinarie, per ottenere il più favorevole regime del reverse charge.

Secondo la Ctr, la genericità di tale assunto non può essere posta a fondamento del recupero, anche in consideraz­ione del fatto che, nel caso in esame, tutte le fatture di vendita dei beni erano indirizzat­e a società specializz­ate proprio nella trasformaz­ione di materiali preziosi, anche se non in via esclusiva. Né, concludono i giudici, si può pretendere che sia il venditore a dover provare che il cessionari­o abbia effettivam­ente destinato il materiale acquistato alla fusione/trasformaz­ione e non, come sembra ipotizzare l’Agenzia, direttamen­te alla commercial­izzazione dell’usato.

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