L’impresa chiude e i licenziamenti sono garantiti da conciliazione
Il divieto del cura Italia mette in difficoltà le aziende cessate dopo il lockdown L’alternativa è rimanere inattivi fino al termine del blocco ai recessi
Aziende sostanzialmente a fine vita ma impossibilitate a cessare l’attività, oppure licenziamenti intimati nonostante il divieto e “protetti” con una conciliazione tombale. Il divieto di effettuare licenziamenti per motivi economici, dal 17 marzo al 17 agosto (con ipotesi di proroga) introdotto dal Dl 18/ 2020 sta producendo anche questi effetti, portati alla luce ieri dall’Ispettorato nazionale del lavoro in occasione di un’audizione alla commissione Lavoro del Senato.
Danilo Papa, a capo della direzione centrale coordinamento giuridico dell’Inl, ha affermato che il ministero ha segnalato all’Ispettorato il licenziamento di 1.168 persone durante il periodo 29 maggio-11 giugno in cui vige il più esteso divieto di recesso per motivi economici introdotto dal Dl 18/ 2020, affinché effettui delle verifiche. Numeri che però non hanno valenza statistica dato che, pur in vigenza del divieto, sono consentiti i licenziamenti per cambio appalto con riassunzione e quelli collettivi definiti tra il 23 febbraio e il 16 marzo.
Un divieto, questo, che presenta rilevanti problemi di legittimità costituzionale, nel momento in cui ha perso il suo carattere eccezionale e transitorio (come era nella configurazione iniziale del decreto cura Italia) finendo per diventare una misura applicabile per un periodo lungo (cinque mesi, fino ad agosto) o addirittura lunghissimo (si parla di una proroga fino alla fine dell’anno). Durate che si pongono in evidente contrasto con il principio di libertà imprenditoriale (articolo 41 della Costituzione) e con il canone di ragionevolezza più volte applicato dalla Consulta, tanto più se questa durata va oltre il periodo di durata massima degli “ammortizzatori Covid”.
In compenso Papa, nell’illustrare la relazione firmata dal direttore dell’Inl, Leonardo Alestra, ha anche sottolineato che molte imprese si rivolgono all’Ispettoratol per chiedere un parere a fronte della necessità di procedere comunque al licenziamento, in quanto non riprendono l’attività dopo il lockdown. Quindi, o rimangono formalmente in vita perché la presenza dei dipendenti non consente di chiudere le posizioni previdenziali e fiscali, oppure sfidano il divieto. Cosa che spesso effettivamente succede, fa sapere l’Ispettorato, e si tutelano siglando con i lavoratori conciliazioni in sede sindacale con la classica “rinuncia alla impugnazione”. I dipendenti in questo caso non perdono il diritto alla Naspi, dato che Inps nel messaggio 2261/2020 ha comunicato di riconoscerla comunque, anche se il licenziamento a fronte di un intervento del giudice, dovrebbe risultare nullo.
Soluzione, la conciliazione in sede protetta, di assoluto buon senso, la cui tenuta giuridica sarà tuttavia da valutare nel momento in cui i lavoratori, qualora cambino idea, impugnino tali accordi conciliativi: tali azioni potrebbero avere esiti imprevedibili, se si considera che la tenuta giudiziale delle conciliazioni è sempre minore per i motivi più disparati.
Positivi, invece, i dati relativi ai controlli effettuati dall’Inl sull’applicazione dei protocolli Covid per la ripresa delle attività: delle 3.151 verifiche, l’88% si è concluso senza riscontrare irregolarità.