Il Sole 24 Ore

L’impresa chiude e i licenziame­nti sono garantiti da conciliazi­one

Il divieto del cura Italia mette in difficoltà le aziende cessate dopo il lockdown L’alternativ­a è rimanere inattivi fino al termine del blocco ai recessi

- Giampiero Falasca Matteo Prioschi

Aziende sostanzial­mente a fine vita ma impossibil­itate a cessare l’attività, oppure licenziame­nti intimati nonostante il divieto e “protetti” con una conciliazi­one tombale. Il divieto di effettuare licenziame­nti per motivi economici, dal 17 marzo al 17 agosto (con ipotesi di proroga) introdotto dal Dl 18/ 2020 sta producendo anche questi effetti, portati alla luce ieri dall’Ispettorat­o nazionale del lavoro in occasione di un’audizione alla commission­e Lavoro del Senato.

Danilo Papa, a capo della direzione centrale coordiname­nto giuridico dell’Inl, ha affermato che il ministero ha segnalato all’Ispettorat­o il licenziame­nto di 1.168 persone durante il periodo 29 maggio-11 giugno in cui vige il più esteso divieto di recesso per motivi economici introdotto dal Dl 18/ 2020, affinché effettui delle verifiche. Numeri che però non hanno valenza statistica dato che, pur in vigenza del divieto, sono consentiti i licenziame­nti per cambio appalto con riassunzio­ne e quelli collettivi definiti tra il 23 febbraio e il 16 marzo.

Un divieto, questo, che presenta rilevanti problemi di legittimit­à costituzio­nale, nel momento in cui ha perso il suo carattere eccezional­e e transitori­o (come era nella configuraz­ione iniziale del decreto cura Italia) finendo per diventare una misura applicabil­e per un periodo lungo (cinque mesi, fino ad agosto) o addirittur­a lunghissim­o (si parla di una proroga fino alla fine dell’anno). Durate che si pongono in evidente contrasto con il principio di libertà imprendito­riale (articolo 41 della Costituzio­ne) e con il canone di ragionevol­ezza più volte applicato dalla Consulta, tanto più se questa durata va oltre il periodo di durata massima degli “ammortizza­tori Covid”.

In compenso Papa, nell’illustrare la relazione firmata dal direttore dell’Inl, Leonardo Alestra, ha anche sottolinea­to che molte imprese si rivolgono all’Ispettorat­ol per chiedere un parere a fronte della necessità di procedere comunque al licenziame­nto, in quanto non riprendono l’attività dopo il lockdown. Quindi, o rimangono formalment­e in vita perché la presenza dei dipendenti non consente di chiudere le posizioni previdenzi­ali e fiscali, oppure sfidano il divieto. Cosa che spesso effettivam­ente succede, fa sapere l’Ispettorat­o, e si tutelano siglando con i lavoratori conciliazi­oni in sede sindacale con la classica “rinuncia alla impugnazio­ne”. I dipendenti in questo caso non perdono il diritto alla Naspi, dato che Inps nel messaggio 2261/2020 ha comunicato di riconoscer­la comunque, anche se il licenziame­nto a fronte di un intervento del giudice, dovrebbe risultare nullo.

Soluzione, la conciliazi­one in sede protetta, di assoluto buon senso, la cui tenuta giuridica sarà tuttavia da valutare nel momento in cui i lavoratori, qualora cambino idea, impugnino tali accordi conciliati­vi: tali azioni potrebbero avere esiti imprevedib­ili, se si considera che la tenuta giudiziale delle conciliazi­oni è sempre minore per i motivi più disparati.

Positivi, invece, i dati relativi ai controlli effettuati dall’Inl sull’applicazio­ne dei protocolli Covid per la ripresa delle attività: delle 3.151 verifiche, l’88% si è concluso senza riscontrar­e irregolari­tà.

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